Alle corde – Silvia Molinari

SINTESI DEL LIBRO:
Cerchi di rilassarsi e respiri in modo profondo.”
La mia voce risuona ovattata e si mischia, come un’essenza
balsamica, al profumo di lavanda che aleggia nella sala. Le luci sono
state abbassate da Johanna, la capo-ostetrica, e a malapena riesco
ad intuire il rossore sul volto della signora Carpenter, il cui respiro
rantolante poco si addice all’atmosfera zen della sala parto.
“Respirare in modo profondo? Ma se non sto facendo altro da tre ore
a questa parte!” sbotta la donna, allontanando alcune ciocche di
capelli madidi dal volto.
“Non esageriamo, siamo qui in sala parto da soli trenta minuti,”
ribatte Johanna, con quella imperturbabilità che ho imparato ad
apprezzare durante gli anni di specializzazione e che ora, in
presenza di una paziente come Brenda Carpenter, si rivela la
strategia migliore per arrivare alla fine del parto senza
recriminazioni, minacce o, peggio ancora, citazioni in giudizio.
“Non faccia la fiscale con me! Le sembra il caso?” urla la partoriente,
paonazza e apparentemente in apnea.
“Su, amore, non puoi rivolgerti all'ostetrica in questo modo.” Il marito,
John Edward Carpenter, le sorride, picchiettandole una mano sulla
spalla con fare imbarazzato, mentre con l’altra si deterge la fronte
con gesti irrequieti.
“Chiudi il becco. Se siamo qui è solo per colpa tua!”
Le labbra del marito si assottigliano per lo sdegno.
“Se ben ricordo quella bottiglia di Cabernet Sauvignon della Napa
Valley ce la siamo scolata in due, o sbaglio?”
Termino di controllare la dilatazione della cervice e con la coda
dell’occhio noto le nocche della mano della partoriente sbiancare, le
dita strattonare il lenzuolo e, prima che possa riprendere a contare,
mi ritrovo a fissare la parabola del suo gancio sinistro finire dritta
sull'occhio del marito.
Le
urla
dei
signori
Carpenter rimbalzano nella stanza,
sovrapponendosi come le traiettorie di uccelli spauriti.
“Dannazione! Che ti prende?!” s’infuria il futuro padre, portandosi le
mani al volto.
“Mi scusi, se è qui per disturbare, le chiedo di lasciare la sala,” lo
riprende Johanna. Lo sguardo dell’uomo si fa confuso, o forse sta
semplicemente valutando di andarsene.
“Non ci provare nemmeno,” lo minaccia la moglie, intuendo le
intenzioni del marito. “Tu stai qui con me. Ricordi? Nella buona e
nella cattiva sorte! La buona non la ricordo, adesso concentrati su
quella cattiva e tieni il becco chiuso!”
Mi schiarisco la gola. “Riprendiamo a contare: uno... due... tre...
respiri profondi.”
“Vede qualcosa? Una testolina?” domanda la paziente, puntellandosi
con i gomiti e cercando un contatto visivo con me, seduta al di là del
telo che le ricopre le gambe.
“Ancora nulla, signora. Si rilassi,” si intromette Johanna, dando una
sbirciatina sotto.
“Rilassarmi? Ma lei è pazza!”
“No, signora, sono l'ostetrica e le assicuro che con cinque centimetri
di dilatazione non andiamo da nessuna parte.”
“Come, cinque centimetri? Due ore fa ero a due centimetri! A quanto
dobbiamo arrivare?” domanda, il volto una maschera di panico e
sudore.
“Una decina. Anche se dall'eco suo figlio risulta macrosomico, quindi
credo che dovrebbe fare di meglio.”
“Macrosomico? Nessuno mi ha mai parlato di un problema
genetico!” sbotta, sconvolta.
“Signora, si calmi. Significa che è un bel bambinone e non uno
scricciolo. Nel caso specifico, ha sicuramente una testa importante.
La dottoressa Madsen è qui apposta per verificare che la dilatazione
sia sufficiente per la testa del suo bambino,” le spiega Johanna,
accendendo un bastoncino d’incenso e agitandolo in aria come uno
sciamano, sicura di rafforzare gli effetti calmanti della terapia
meditativa.
“E quanto dovrebbe essere questa dilatazione?” ansima la donna.
“Undici… forse dodici centimetri…” mormoro, controllando le stampe
dell’ecografia fatta due ore prima.
“Dodici? Ne mancano altri otto?” chiede, sgomenta.
“No, cara, ce ne vogliono altri sette per arrivare a dodici,” puntualizza
il signor Carpenter.
“Ah, vi prego, toglietemelo dai piedi!” urla la moglie.
“Era per dire, cara.”
La signora Carpenter dà l’impressione di essere sull'orlo di una crisi
di nervi: inizia a piangere e a singhiozzare rumorosamente. Mi
sembra del tutto inutile aver messo su il CD di musica tibetana, ma
Johanna è una fervente sostenitrice dei parti zen e a me non
dispiace sentire ogni tanto una campana che rintocca, tra un urlo e
l’altro.
“Ma come? Altre sette ore di travaglio? Potrei morire di dolore!”
“Non essere pessimista… e poi potresti dilatarti tutto d'un fiato,”
cerca di consolarla il marito.
“Dubito, sua moglie è sotto ossitocina e non sembra reagire. Non
sarà una notte facile,” lo informo, scambiando uno sguardo
significativo con l’ostetrica.
***
E, di fatto, non lo è stata. Davanti al mio armadietto, finisco di
indossare la maglietta che mi sono tolta ventidue ore fa. Non mangio
da sedici ore e non chiudo occhio da ventiquattro. Insomma, mi
sento uno straccio, e sono messa poco meglio della signora
Carpenter, avvocato penalista, che dopo un'ora esatta dal momento
in cui aveva preso a pugni il marito, ha iniziato a blaterale che ci
avrebbe fatto causa per incompetenza. Nemmeno la nascita del
primogenito, 4 chili e 650 grammi di neonato decisamente con una
testa di tutto rispetto, è bastata a placare il suo animo battagliero,
che ha ceduto solo quando John Edward Carpenter jr. ha emesso il
suo primo vagito e ha appoggiato la sua guancia rosea sul petto
florido della madre. Le lacrime di gioia di Brenda cancellano il ricordo
dei momenti poco piacevoli che le hanno precedute, ma la
soddisfazione di aver fatto nascere un altro bambino non riesce a
compensare del tutto questa sensazione di spossatezza che provo.
Appoggio la fronte al freddo metallo dell'armadietto, come per
sorreggere il peso di questa lunga notte di urla, dolore e sangue.
Gli spogliatoi sono quasi vuoti, il nuovo turno è già iniziato e i pochi
ritardatari si affrettano a raggiungere la stanza del briefing. Poco
lontano, il gocciolio ritmato di un rubinetto chiuso male scandisce il
lento corso del tempo.
“Ehi, tutto bene?”
Mi volto, stupita nel riconoscere la voce della mia migliore amica.
Elizabeth Renner è davanti a me, sorridente e riposata come se
avesse dormito dodici ore filate. Cosa che ha probabilmente fatto.
“Elizabeth? Come hai fatto ad entrare?” le domando, senza
nemmeno salutarla. Sono allibita: quest'area è accessibile solo al
personale interno e dobbiamo sottostare a talmente tanti controlli da
fare invidia ad Alcatraz.
“Lo sai che se voglio riesco ad intrufolarmi ovunque!” esclama,
compiaciuta.
Alle sue spalle, oltre la porta aperta, Mary, una delle infermiere del
reparto di ginecologia, getta un occhio nella stanza e si schiarisce la
gola. “Mi scusi, è sua la carrozzina?” chiede, rivolta a Liz. Lizzie
diventa paonazza.
“Io, ehm, sì... è mia,” ammette, suo malgrado.
La fisso, sbalordita.
Fa spallucce e mi strizza l'occhio.
“Ma lo sa che non può lasciare i figli incustoditi, soprattutto se
lattanti?”
“Non l'ho mica abbandonato,” ribatte, uscendo in corridoio dove
prende possesso di una carrozzina super-moderna. La spinge
dentro, evitando di guardarmi.
“L'avevo lasciato fuori perché qui l'aria è satura di disinfettante, c'è
questo odore nell'aria…” arriccia il naso, disgustata, cercando
comprensione nell'infermiera, un donnone di quasi un metro e
ottanta per centoventi chili di peso.
“È odore di ospedale, lo trova ovunque al Boston Medical Center. Si
porti dietro suo figlio e aspetti che compia diciotto anni prima di
scaricarlo in giro, intesi?”
L'infermiera si dilegua e io mi chino, con un misto di stupore e
panico, sulla carrozzina.
“Hai partorito un bambino e non me l’hai nemmeno detto?” mormoro,
sotto shock.
“Stai scherzando?!” ribatte lei, risentita.
Alle mie spalle, la strutturata che sta per iniziare il turno si allunga
verso la carrozzina, tutta sorrisi e occhi dolci. “Oh, ma chi c'è qui?
Ma che bel cucciolotto, e come dorme! Sembra un angioletto.”
“Sì, lo ammetto, è davvero un bravo... ehm... bambino.”
“Che fortuna che ha, se sono bravi da piccoli―”
“Saranno sicuramente dei delinquenti da grandi,” finisco la frase per
lei. La collega mi dà un colpo sulla spalla e ridacchia.
“La solita cinica, eh, Madsen?”
Le sorrido, ironica. “Mai stata cinica, sono solo una povera
ginecologa alla fine di un doppio turno.” La saluto mentre si dirige,
ancora piena di energia, verso la sala dei briefing, poi mi volto verso
Elizabeth e aggiungo: “Usciamo da qui, mi devi spiegare tutto! Lui
chi è?”
“Il bambino? Si chiama Derek!”
“Non lui, il padre di Derek! Non dirmi che è Brian! Deve ancora finire
la tesi di dottorato... e poi non mi ha mai detto nulla, mai una parola,
e sono la tua migliore amica!”
“Non è figlio di Brian, lui...”
“Tu... tu... hai avuto un rapporto occasionale con uno sconosciuto e
sei rimasta incinta?”
“Ma scherzi, non succederebbe mai!”
“Dio sia ringraziato. Stavo quasi per―”
“Prendo sempre precauzioni, io!”
“Vorrai scherzare, vero?”
“Ovviamente. Non è figlio mio! Lui è―”
“Il figlio di Jane?”
“Figurati! Sta ancora aspettando che quell'allocco di Bingley si
accorga di lei!”
“Non si chiamava Martin Hollway?”
Mi lancia un'occhiata ironica. “Conosci la fissa di mia madre per
Jane Austen, no?”
“Devo dedurre che Lydia, secondo copione, è fuggita con un
cantante rock squattrinato per andarsi a sposare a Las Vegas
mandando in fumo le velleità matrimoniali di tua madre e sfornando
un pargolo di nome Derek che, detto tra noi, ha ben poco di
austeniano?”
“No, Lydia non è ancora fuggita con nessuno, anche se credo che
prima della fine dell'anno si metterà in un altro pasticcio. Derek, beh,
lui è...” e nel completare la frase tira fuori il pargolo dalla carrozzina,
portandoselo al petto con gesti piuttosto grossolani e maldestri. “Lui
è un reborn baby!”
“Un cosa?”
Allungo le mani per prenderlo in braccio, con il cuore che mi batte
per l'emozione.
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