Alle corde – Leandro Conti Celestini

SINTESI DEL LIBRO:
Da qualche parte in Nevada US, fine settembre 1979
Sembrava che il tempo non passasse mai in quella giornata di fine
estate; il paesaggio si succedeva monotono e solo la luce cambiava: da un
sole cristallino, con cieli azzurri e sconfinati della mattina, a un
pomeriggio freddo e malinconico, che terminava in un tramonto infuocato
perso lassù, oltre le montagne. Non avevi detto una parola per tutto il
viaggio, e lo stesso non aveva fatto il Coach accanto a te, concentrato sulla
strada e in chissà quali pensieri. Anche se ormai lo conoscevi da quattro
anni, ancora non avevi capito dove andasse a rifugiarsi in momenti come
quelli e non avevi mai osato chiederglielo. O forse in quel momento era
solo stanco.
Ti limiti a stendere le gambe sul cruscotto, cercando una posizione per
poterti sgranchire un po’, dopo ore sul sedile.
Dallo zaino sul tappeto sotto il sedile, prendi la confezione di pastelli a
olio che hai portato con te e inizi distrattamente a disegnare su una delle
pagine bianche dell’album: una replica del paesaggio desolato prende
forma, con poche auto, le uscite dell’autostrada, i nomi delle cittadine
superate in velocità, quasi nomi da fiaba che suonano nostalgici.
«Quanto manca?»
Il Coach sembra risvegliarsi dai pensieri in cui si era immerso e sentire
la tua voce lo riporta di colpo nel mondo reale.
«Siamo quasi fuori dal Nevada, ancora due o tre ore e arriviamo in
Oregon.»
Ti sei offerto più volte di dargli il cambio alla guida, ma lui non ha mai
voluto.
«C’è ancora tempo, forse dovresti provare a dormire un po’.»
Alzi gli occhi dal disegno verso la strada, il tuo riflesso scorre
improvviso nel vetro anteriore, riesci a scorgere il tuo viso come in un
fotogramma di un film. Poi la luce del sole del tramonto ti colpisce, i tuoi
capelli rossi si illuminano in un fuoco di boccoli morbidi, socchiudi gli
occhi color oro liquido per non essere abbagliato. Anche il Coach si copre
il viso con il dorso della mano e abbassa la visiera sul vetro, mentre scorgi
il suo profilo squadrato, la barba non fatta da qualche giorno e i segni
della stanchezza sotto gli occhi.
«Allora, quando mi parli un po’ di quel tuo amico che incontreremo
là?»
«John? Pensavo di averti detto tutto quello che c’è da dire.»
Sorridi mentre passi il colore verde sulle colline della pagina bianca,
toccando il cielo azzurro polvere e arancione. Il sole giallo chiaro sta
prendendo la forma di frutti, foglie e tralci d’uva, quasi come sospeso nel
cielo.
«Tutto? So soltanto che eravate amici in Vegas una decina di anni fa e
che dovrebbe presentarci qualche pezzo grosso di una di quelle
federazioni su al Nord.»
Il Coach non ti risponde. Accende la radio tenendo gli occhi fissi sulla
strada e superando un pick-up bianco sporco; la voce fuoricampo dello
speaker radiofonico entra all’improvviso nell’abitacolo silenzioso con un
sottofondo di musica e di risate del pubblico.
“Ed è tutto per voi, amici del pomeriggio. Prima di salutarci vi
dedichiamo una delle nostre canzoni. Risale a qualche anno fa, ma è un
classico, un sempreverde.”
«John è… è un tipo strano, direi» e si gratta il mento ruvido, proprio
sotto la fossetta, un gesto che gli hai visto fare sin dalla prima volta che ti
ha allenato.
«Non so se avrei davvero voluto tornare in contatto con lui, ma è
l’unica occasione che è venuta fuori in un anno di ricerche. E non sapevo
più dove andare ancora a cercare.»
Non rispondi e ti senti un po’ strano per aver accettato quella strana
proposta, dall’entusiasmo iniziale di un mese fa, stanno nascendo dubbi,
paure. Tu volevi una possibilità quanto lui, se non di più, ma tenevi il
desiderio nascosto nei tuoi silenzi, nei tuoi sogni a occhi aperti o nelle
pagine dell’album da disegno. Ma adesso è anche la prima volta che senti
nel suo tono una vena di tensione, quando è sempre stato lui quello che ti
ha guidato, che non ha mai avuto dubbi, cui potevi chiedere qualsiasi
cosa, quello che non sbagliava mai. L’uomo con quasi vent’anni di
esperienza, altro che te, diciottenne.
«Quando lui mi ha detto della sua idea, ti ho chiamato, e ti ho lasciato
decidere, in qualsiasi momento sarei stato pronto a iniziare questa
avventura.»
“When I was young, it seemed that life was so wonderful
A miracle, oh it was beautiful, magical
And all the birds in the trees, well they’d be singing so happily
Oh joyfully, playfully watching me
But then they send me away to teach me how to be sensible
Logical, oh responsible, practical
And they showed me a world where I could be so dependable
Oh clinical, oh intellectual, cynical”
[1]
La voce dei Supertramp ti riporta a quel giorno di qualche mese fa: la
scuola era appena finita, tu non avevi ancora realizzato di esserti affacciato
alla vita adulta, era un pomeriggio estivo in una piccola cittadina a un’ora
da Las Vegas, Nevada. Tua mamma era fuori per compere e tuo padre al
lavoro fino a tardi. La tv accesa su un film in bianco e nero, con i
protagonisti su sfondi di cieli nuvolosi e capitelli greci, ma senza audio,
solo il giradischi suonava il vinile dei Supertramp che ti avevano
regalato; la testa iniziava a pulsare, stava arrivando la solita emicrania.
Puntuale ogni due o tre mesi si ripresentava. Desideravi solo un po’ di
fresco, sdraiato sul divano, nella speranza che dietro gli occhi chiusi, il
dolore si attenuasse con la musica.
Il telefono interruppe quella fragile pace.
Hai vissuto a Perfection per tutta la vita, un nome piuttosto ironico in
verità per un assembramento disordinato di edifici attorno alla strada
principale, con il cinema, la scuola, il centro sportivo sparpagliati per tutto
il territorio circostante fino alle ultime case al limitare del deserto.
D’inverno non faceva mai freddo, a parte la notte, ma d’estate il caldo era
insopportabile e solo pochi posti, tra cui il centro civico, la biblioteca e
alcuni negozi, avevano l’aria condizionata. Non esisteva un’attrazione
principale laggiù e l’unica cosa che quelli della tua età seguivano,
compresi i grandi e i bambini, era lo spettacolo del sabato pomeriggio al
cinema locale, mentre i più fortunati andavano a passarlo a Vegas,
passeggiando sullo Strip o tra i vari hotel, cercando di rimediare
un’entrata a qualcuno degli show che andavano avanti per tutto l’anno
magari anche solo aspettare fuori, sperando di vedere passare qualche
celebrità. Il padre di Henry Ferris, il tuo primo compagno di banco,
ripeteva ogni volta che aveva visto esibirsi Elvis Presley al Tropicana solo
un anno prima che morisse. Tu però, sin dall’inizio della scuola, non eri
mai stato invitato a unirti a queste gite, non avevi amici più grandi o
passaggi verso la città, e finivi per trascorrere i weekend il più delle volte
da solo. Volevi crescere in fretta per poter fare qualcosa nella tua vita,
magari scappare da tutto questo, ricominciare da zero in un posto
migliore, far funzionare le cose che non erano mai iniziate nel verso
giusto, farle accelerare, invece che vederle camminare a passi stanchi nella
polvere del deserto.
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