Yusdra e la città della sapienza – Daniela Morelli

SINTESI DEL LIBRO:
La sveglia trilla sul comodino. La mano sbuca da sotto il piumone, scosta
Pantou e, l’orsacchiotto di peluche un po’ spelacchiato, urta il bicchiere di
plastica a pois gialli, lo fa cadere sulla copertina del Piccolo Principe, per
fortuna il bicchiere è quasi vuoto. La mano annaspa sul piano, dove sono
accumulati CD, fermagli per capelli, una gomma masticata, una lampada, il
diario di scuola, la penna. Trova la sveglia. Pigia il tasto dell’allarme e
nalmente silenzio.
Dalla nestra, di cui Yusdra non vuole siano mai chiuse le persiane,
arriva il ri esso del lampione della Provinciale. Uno spiraglio di luce basta
alla mano per farsi strada tra gli oggetti e raggiungere il pulsante della
lampada a forma di fungo.
Stropicciandosi gli occhi, Yusdra si siede. Sistema il cuscino dietro la
schiena, afferra il quaderno e la penna verde, un regalo della cugina Malika.
Gliel’ha in lata in tasca, all’aeroporto, poco più di un anno prima. Tornava
in Marocco con i genitori, dopo aver vissuto in Italia. La abbracciava con
quel suo corpo morbido e un po’ grassoccio, le sussurrava all’orecchio: —
Dentro il cappuccio c’è un biglietto. Sai per chi è. — Tirava su col naso. —
Digli che appena sono maggiorenne scappo e ritorno in Italia! Fammi sapere
cosa ti risponde.
Yusdra aveva annuito, l’aveva stretta forte, sentendosi una vigliacca. Non
lo avrebbe consegnato, il biglietto. Lo sapevano tutti che a quel compagno di
scuola Malika non interessava.
— Verrai a trovarmi a Tangeri? Mi scriverai, vero?
Sempre.
— Anche su Facebook?
Certo.
Quella è la penna di Malika. La penna che le farà prendere un buon voto
in italiano. “Se prendo un buon voto, faccio nalmente pace con la prof e
forse riesco anche a far sorridere quel muso lungo di Yamìna.”
Nessuno l’ha mai sgridata per il fatto che chiami per nome quella donna
che le hanno detto essere sua madre. E come dubitarne? Le somiglia come
una goccia d’acqua. Lo stesso colore di pelle. Più scuro di quello della sua
gente. Gli stessi occhi allungati, gli incisivi superiori lievemente più grandi,
spostati in avanti. Deve essere per quello che non le riesce di schiare. —
Sono in fuori per sorridere meglio — le dice Yamìna quando vuole farle un
complimento. Purtroppo anche gli stessi capelli, tantissimi, ricci e
ingarbugliati, una condanna! Le piacerebbe averli appena ondulati, come
quelli di Beatrice, la sua compagna di banco, la più brava in disegno di tutta
la scuola, né bionda, né castana, con i capelli morbidi, ma non c’è verso. I
suoi sono duri. Pettinarseli è una tortura.
La camminata, almeno, non è quella di sua madre, perché Yamìna si
muove larga. Si vede che a smettere di essere nomadi si nisce per
camminare in quel modo, aveva ragione nonna Leyla: La gente che si ferma
diventa smunta e molle, capretta.
A lei, però, non succederà.
“Io camminerò sempre come una nomade, testa alta e schiena dritta.”
Tayeb, suo padre, cammina proprio così e la riempie d’orgoglio. Da lui ha
preso altezza, gambe lunghe, mani dalle dita affusolate e quel modo così
speciale di muoverle. Suo padre vende frutta e verdura al mercato. — Ma è
come se invece di cipolle, avesse in mano pietre preziose — dice di lui
Yamìna, che se lo mangia con gli occhi.
“Fare la pace con la prof di italiano e strappare un complimento a mia
madre… boh, più facile la prima cosa.”
Da un po’ di tempo, Yamìna è poco attenta a lei, addirittura non ha fatto
una piega quando, la settimana scorsa, le ha portato la nota del preside.
Certo, Yusdra si è limitata a dirle che era solo una nota data a tutta la classe,
una specie di punizione collettiva, per essere stati rumorosi durante il
discorso del sindaco, non le ha tradotto bene tutte le parole, soprattutto dove
c’è scritto che è lei la responsabile dell’increscioso incidente. Yamìna ha
rmato senza chiedere spiegazioni, senza per fortuna parlarne con suo
padre, e c’è da augurarsi che non lo faccia mai. Lui è ben più severo.
Quanto a Irene, la mitica prof d’italiano, non se lo meritava di essere
messa in difficoltà davanti a tutti alla Festa degli Alberi, proprio dalla sua
allieva preferita…
Forse avrebbe dovuto chiederle scusa. Deve decidersi a farlo, anche se
l’orgoglio è duro da vincere. E poi è stato proprio a causa dell’orgoglio che ha
combinato quel guaio…
Risoluta, Yusdra impugna la penna verde di Malika e comincia a scrivere.
La storia del Piccolo Principe mi piace perché parla a tutti i bambini del
mondo, compresi quelli che stanno dentro gli adulti. E se i bambini stanno
dentro gli adulti, forse anche gli adulti possono stare dentro i bambini. I papà,
le mamme. Le nonne. I cugini. Anche se i bambini non sono come il serpente
boa, non hanno ingoiato né una volpe, né un elefante e non prenderanno la
forma di un cappello che sembra un elefante, o la forma di tutta la famiglia:
papà, mamma, nonne e cugine. E nemmeno la forma della kheyma.
Cancella l’ultima parola e scrive della tenda. Rilegge. Cancella tutta
l’ultima frase. “Che cretina, non devo parlare del deserto e racconto della
tenda dei nomadi…”
Poi la sua attenzione è disturbata da un rumore lontano, che viene dalla
Provinciale. È invasa da un’ansia che la obbliga a balzare giù dal letto. Il
quaderno cade. Tic fa la penna. La porta è aperta, nel corridoio c’è già l’odore
del caffè. Il papà è lì, in cucina. Gli occhi assonnati. Il giubbotto di pelle.
Tutto come sempre, ma lei ha bisogno di aggrapparsi a lui. — Aspetta. —
Si parlano in italiano e lui risponde sforzandosi di parlar bene, ma non c’è
verso di fargli dire gli articoli. Una parola, però, non la traduce: bàba, papà.
— Sono in ritardo per mercato, piccola.
— Conta no a cento prima di uscire.
— Perché?
Yusdra alza le spalle, non lo sa spiegare. Sorride.
— Vieni qui, da bàba. — Tayeb la prende sulle ginocchia. — Che ci fai già
sveglia, capretta?
Capretta? Evviva, vuol dire che Yamìna non gli ha ancora detto niente
della nota.
— Allora? Che ci fai in piedi?
— I compiti.
— Quali?
— Il commento a un libro.
— Ti consumerai occhi a furia di leggere. Che libro?
— Il Piccolo Principe.
— Le Petit Prince.
Le piace sentirlo parlare in francese, una lingua che nessuno le ha chiesto
di dimenticare, come invece l’arabo.
Ancora qualche coccola.
— Mi raccomando, lascia dormire mamma. Ha bisogno di riposare.
— Perché? Di solito ti prepara lei la colazione.
— Di solito. Su, adesso devo proprio andare.
— No, manca ancora un po’ a cento. — Lo ferma. — Per favore, non
uscire adesso.
Lui la mette a terra e le dà un bacio sulla fronte. Lei lo trattiene ancora un
po’, stringendosi a lui.
Un botto tremendo e vicinissimo fa tremare i vetri. Viene dalla
Provinciale. Yusdra ha un sussulto.
Il padre si precipita alla nestra.
Pallido, corre fuori.
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