Una ragazza ad Auschwitz – Heather Morris

SINTESI DEL LIBRO:
Cilka fissa il soldato dell’esercito che è appena entrato nel campo,
fermo in piedi davanti a lei. Dice qualcosa in russo, poi in tedesco. Il
soldato svetta sulla diciottenne. «Du bist frei.» Sei libera. Lei non sa
se ha udito davvero le sue parole. Gli unici russi che ha visto prima
di allora erano emaciati e morivano di fame: prigionieri di guerra.
È davvero possibile che esista la libertà? Possibile che questo
incubo sia terminato?
Quando lei non risponde, lui si china verso di lei e le posa le mani
sulle spalle. Lei trasalisce.
Lui ritrae rapidamente le mani. «Scusa, non volevo spaventarti»,
continua in un tedesco zoppicante. Scrollando la testa, sembra
concludere che lei non lo capisce. Fa un gesto ampio e lentamente
ripete le parole. «Sei libera. Sei al sicuro. Siamo l’esercito sovietico e
siamo qui per aiutarti.»
«Capisco», sussurra Cilka stringendosi addosso il cappotto che
nasconde il corpo minuto.
«Capisci il russo?»
Cilka annuisce. È cresciuta parlando un dialetto slavo orientale, il
ruteno.
«Come ti chiami?» chiede lui gentilmente.
La ragazza alza lo sguardo verso gli occhi del soldato e con voce
limpida risponde: «Mi chiamo Cecilia Klein, ma gli amici mi chiamano
Cilka».
«È un bel nome», dice lui. È strano guardare un uomo così in
salute che non sia uno dei suoi aguzzini. Ha gli occhi chiari, le
guance piene, e i capelli biondi gli spuntano da sotto il berretto. «Da
dove vieni, Cilka Klein?»
I
ricordi della sua vecchia vita si sono sbiaditi, sono diventati
sfocati. A un certo punto era diventato troppo doloroso rammentare
che la vita precedente, trascorsa con la sua famiglia a Bardejov, era
esistita davvero.
«Vengo dalla Cecoslovacchia», dice con voce spezzata.
Campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau,
febbraio 1945
Cilka è seduta nel blocco, il più vicino possibile all’unica stufa che
irradia calore, e sa di aver già attirato l’attenzione. Le SS avevano
costretto le altre donne di sana costituzione, comprese le sue
amiche, a uscire dal campo e a mettersi in marcia qualche settimana
prima della disfatta.
I prigionieri rimasti sono scheletrici o malati, oppure sono bambini.
E poi c’è Cilka. Doveva essere fucilata con gli altri, ma nella fretta di
darsela a gambe i nazisti li avevano abbandonati tutti al loro destino.
Sono arrivati anche degli ufficiali – agenti del controspionaggio, ha
sentito dire Cilka, che tuttavia non sa che cosa sia – per gestire una
situazione che un comune soldato non è in grado di affrontare.
L’agenzia ha il compito di far rispettare l’ordine e di evitare ogni
possibile minaccia per lo stato sovietico. Il loro ruolo, le hanno detto i
soldati, è interrogare ogni prigioniero e scoprire i dettagli della sua
prigionia per capire se ha collaborato o lavorato per i nazisti.
L’esercito tedesco in ritirata è considerato nemico dell’Unione
Sovietica e chiunque vi abbia avuto a che fare è, a sua volta, un
nemico dell’Unione Sovietica.
Un soldato entra nella baracca. «Vieni con me», dice indicando
Cilka. Allo stesso tempo una mano le afferra il braccio destro e la tira
in piedi. Sono trascorse parecchie settimane, e vedere gli altri
prigionieri portati via per essere interrogati fa parte della routine del
blocco. Per Cilka è semplicemente il suo turno. Ha diciotto anni e le
resta solo la speranza che capiscano che non aveva altra scelta per
sopravvivere, se non fare quello che ha fatto. Nessuna scelta, tranne
la morte. Spera solo di tornare presto a casa, in Cecoslovacchia, e
trovare il modo di andare avanti.
Quando viene portata nell’edificio adibito a quartier generale
dell’esercito sovietico, Cilka abbozza un sorriso ai quattro uomini
seduti davanti a lei nella stanza. Sono qui per punire i suoi carcerieri
scellerati, non lei. È iniziata un’epoca felice, non ci saranno altri lutti.
Nessuno risponde al suo sorriso. Nota che le uniformi sono
leggermente diverse da quelle dei soldati all’esterno. Sulle spalle
hanno delle mostrine blu e sui cappelli, posati sul tavolo davanti a
loro, c’è un nastro della stessa tonalità, con una striscia rossa.
Alla fine uno degli uomini le sorride e le parla con voce posata.
«Vuoi dirci il tuo nome?»
«Cecilia Klein.»
«Da dove vieni, Cecilia? Il tuo paese e la tua città.»
«Vengo da Bardejov, in Cecoslovacchia.»
«Data di nascita?»
«16 marzo 1926.»
«Da quanto tempo sei qui?»
«Sono arrivata il 23 aprile 1942, subito dopo aver compiuto sedici
anni.»
L’uomo fa una pausa e la studia.
«È un sacco di tempo.»
«Un’eternità, qui dentro.»
«Che cos’hai fatto dall’aprile del 1942?»
«Ho cercato di sopravvivere.»
«Sì, ma come hai fatto?» Inclina la testa. «Non mi sembra che tu
abbia patito la fame.»
Cilka non risponde, ma porta una mano ai capelli – se li è tagliati
da sola dopo la partenza delle sue amiche dal campo.
«Hai lavorato?»
«Ho lavorato per sopravvivere.»
I quattro uomini si scambiano uno sguardo. Uno di loro prende in
mano un foglio di carta e finge di leggerlo prima di parlare.
«Abbiamo una relazione su di te, Cecilia Klein. Dice che sei
sopravvissuta perché ti sei prostituita al nemico.»
Cilka non dice nulla, deglutisce a fatica, guarda quegli uomini uno
a uno cercando di scoprire che cosa dicono, che cosa si aspettano
che lei replichi.
Parla un altro. «È una domanda semplice: hai scopato coi
nazisti?»
«Erano i miei nemici. Qui dentro ero una prigioniera.»
«Ma hai scopato coi nazisti? Ci risulta di sì.»
«Come tanti altri qui, sono stata costretta a fare quello che mi
ordinavano i miei carcerieri.»
Il primo si alza in piedi, ma non la guarda. «Cecilia Klein, sarai
trasferita a Cracovia e lì verrà stabilita la tua sorte.»
«No», dice Cilka alzandosi. Non è possibile che succeda davvero.
«Non potete farmi questo! Sono una prigioniera.»
Uno degli uomini che prima non ha aperto bocca le chiede con
calma: «Parli tedesco?».
«Sì, un po’. Sono qui da tre anni.»
«E parli molte altre lingue, abbiamo saputo. Eppure sei
cecoslovacca.»
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