Una sera di foglie rosse – Riccardo Bruni

SINTESI DEL LIBRO:
Un uomo in vestito grigio e cravatta celeste osserva la lista di nomi, riportata
in un foglio fissato con una puntina sulla porta dell’aula. Stringe gli occhi, si
sfiora il mento. Riflette.
«Avvocato, lei è il prossimo?» gli chiede un tizio in impermeabile e
borsa di pelle in mano. Ha quel tono di voce fastidioso che non sai perché è
fastidioso ma ti infastidisce lo stesso. Come il rumore delle unghie su una
lavagna. Fa venire i brividi. Si dice che sia per il fatto che è simile al verso di
un uccello preistorico che per l’uomo era molto pericoloso, e allora un
rimasuglio di istinto di sopravvivenza ce lo rende insopportabile. In pratica,
quel tipo di sofferenza uditiva ci mette al sicuro.
Per la voce di questo tizio in impermeabile e borsa di pelle in mano, che
si chiama Garrone, vale un po’ lo stesso discorso. Quando la senti ti dà
fastidio, e quel fastidio ti salva perché eviti di cadere nella trappola di una
conversazione che avrebbe lo stesso decorso straziante di una colica renale
mattutina.
Da anni Garrone cerca di entrare nel consiglio dell’ordine, ma ogni
volta finisce trombato alle elezioni. È la sua ossessione, quella che prima o
poi farà di lui un serial killer. Ed è per questo che sta cercando di attaccare
bottone con colui che subito ha identificato come un collega.
«Sì, dovremmo esserci» gli risponde l’uomo in vestito grigio. «Fra poco
tocca a me.»
Indica il pezzo di carta appeso alla porta.
Quel foglio lo chiamano “lista della spesa”. È una sfilza di nomi,
ognuno associato a un numero, che viene appiccicata all’entrata dell’aula
dove si trova il giudice dell’udienza preliminare. Ogni voce corrisponde a un
imputato, ogni numero si riferisce all’articolo del codice penale o alla legge
che l’imputato è accusato di aver violato. E, quando uno finisce nei casini,
l’udienza preliminare è il momento di svolta, una specie di stazione di
smistamento dalla quale la tua posizione può uscire archiviata; oppure puoi
metterti d’accordo sulla pena, ottenendo un po’ di sconto; o puoi chiedere di
essere giudicato subito, risparmiando un sacco di tempo e soldi; altrimenti
puoi decidere di andare a processo. Vuol dire aprire un capitolo della tua vita
che potrebbe durare anni, in cui periodicamente avrai a che fare con questa
storia, in primo, secondo e anche terzo grado, dove gli unici limiti che devi
porti sono quello dei soldi che tutta questa cosa ti costerà e quello della
prescrizione, per ritrovarti alla fine, quando ormai è sempre troppo tardi, a
capire qual è la differenza tra legge e giustizia.
In ogni caso, tutto inizia qui: dalla lista della spesa.
Garrone controlla il nome. Colucci, non gli dice niente. Ma il numero
che gli sta accanto è quello della legge che riguarda la cessione di
stupefacenti.
«Detenzione e spaccio, eh?» chiede al tizio, con un tono di complicità.
«Stamani va così.»
«Cosa faremmo senza gli spacciatori…»
Un rumore interrompe il breve sipario cameratesco. Qualcosa è cascato
per terra alle loro spalle. Si voltano entrambi.
Seduto alla scrivania, che è stata sistemata di fronte all’aula del giudice,
c’è un altro tizio. Il tonfo è stato prodotto da un telefono caduto sul
pavimento, proprio davanti a questo individuo. È avvolto in un giaccone con
un cappuccio tipo parka verde militare che ricorda un po’ un eskimo (e per
questo motivo una sua vecchia conoscenza l’ha sempre chiamato “Zecca”),
con un paio di lenti scure che gli coprono gli occhi resi infuocati da una notte
passata nel modo sbagliato (ma questo i vari Garrone non possono saperlo).
Tra l’altro, per lui oggi è davvero una brutta giornata, per una serie di scazzi
pesanti, compreso il compleanno di una dodicenne che, a quanto pare, non ha
voglia di rivolgergli la parola e una serie di cose che si è imposto di evitare e
che invece continua a fare. Tipo parlare di sé in terza persona, come in questo
momento.
Eccomi qua. Mentre mi piego a raccogliere lo smartphone e sento gli
occhi gonfiarsi nelle orbite. Forse vorrebbero andarsene in quelle di qualcuno
che trascorre le sue notti in passatempi più sani, tipo dormire. Sono uno
straccio. Ma è grazie a questo mio aspetto da derelitto che Garrone non
sembra avermi riconosciuto.
Infatti sorride al presunto collega vestito di grigio, che in genere
chiamano “il Duca”. «Mi sa che il tuo cliente deve ancora smaltirla» gli dice,
in tono confidenziale.
Il Duca si stringe nelle spalle. «Nottataccia.»
La porta dell’aula si apre. Escono un po’ di persone, alcuni sorridono,
scherzano, altri sembrano averne meno voglia. L’ultima a varcare la soglia è
una donna. Statura minuta, grandi lenti che le deformano gli occhi facendoli
sembrare enormi.
«Buongiorno Erminia» dice Garrone, «com’è l’umore stamani? Si
strappa un patteggiamento facile facile?»
«Qui non c’è niente di facile.» Lo sguardo severo dell’impiegata di
cancelleria, affettuosamente chiamata “Lady di Ferro” dai frequentatori del
foro, produce uno spostamento d’aria che fa indietreggiare Garrone di un
passo. La donna si sistema gli occhiali e legge dal foglio che ha in mano, che
poi è identico a quello appeso alla porta: «Colucci è il prossimo.» Alza lo
sguardo, cerca qualcuno. Lo trova. «Avvocato Berni, facciamo alla svelta, per
favore, che stamani siamo pieni.»
Rientra dentro.
«Berni?» dice Garrone. Conosce il nome, ma dall’espressione della sua
faccia sembra non riuscire ad associarlo al presunto collega che gli sta
accanto. Percepisco la sua ansia, perché nella sua mente sottosviluppata il
nome dell’avvocato Berni, che incidentalmente sarebbe il mio, equivale a un
possibile voto. Non credo di essere neppure mai entrato nella stanza che il
tribunale ha assegnato all’ordine, eviterei anche di pagare l’iscrizione
all’albo, se potessi, figuriamoci se vado a votare per questa gentaccia. Ma
Garrone lo ignora.
Il Duca viene a scuotermi. «Leo, ce la fai?» mi chiede.
Lo tranquillizzo. Mi alzo. Mi tolgo gli occhiali scuri, mostrando le
condizioni in cui si trova la mia faccia. Cerco quelli da vista. Rovisto nelle
tasche esterne e in quelle della giacca che ho sotto il parka e infine nella
borsa, ma realizzo di non averla nemmeno portata. Rimetto gli occhiali scuri.
Sembro un idiota, ma sono lenti graduate e almeno evito di andare a sbattere
contro qualcosa, tipo una porta, e riesco a leggere quei quattro appunti che ho
preso e che ho infilato in tasca (fortunatamente, non nella borsa).
«Berni…» prova a dire Garrone, che forse mi sta riconoscendo, ma il
Duca allunga una mano con lo sguardo severo di chi chiede il giusto rispetto
in un momento particolarmente duro.
Entriamo in aula.
La porta si chiude alle nostre spalle. Troviamo il posto al banco e ci
accomodiamo. Il GUP sta giocando con il telefonino. All’accusa c’è un
piemme onorario, vale a dire un avvocato che si è iscritto in un’apposita lista
e fa il lavoro di un magistrato, ma con un compenso ridicolo, per coprire
carenze in organico, ferie arretrate e via dicendo. C’è una certa aria di svacco,
in cui soltanto il piglio militare della Lady di Ferro sembra stonare.
«Colucci è lei?» mi chiede.
«No, dottoressa, io sono l’avvocato Berni.» Indico il Duca, seduto
accanto a me. «Il mio assistito, Massimiliano Colucci, è lui.»
Il giudice stacca gli occhi dal telefonino e mi guarda. «Avvocato, scusi,
non l’avevo riconosciuta con gli occhiali da sole, pensava di toglierseli o le
faccio portare anche un po’ di abbronzante?»
«Sono occhiali da vista, signor giudice, mi scusi ma ho una
congiuntivite allergica devastante e non posso nel modo più assoluto esporre i
miei occhi a fonti luminose. Avrei potuto incaricare un collega di sostituirmi
oppure chiedere un rinvio, ma per non far perdere tempo a tutti sono venuto
ugualmente in tribunale.
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