Ultima – Lisa Hilton

SINTESI DEL LIBRO:
Non ero mai stata prima nell’Italia meridionale e, da come si erano
messe le cose, era possibile che la mia breve visita diventasse
anche l’ultima. Più che altro perché l’ispettore Ruggero Silva della
guardia di finanza mi stava puntando la pistola al cuore. Eravamo su
una spiaggia da qualche parte della Calabria, più precisamente su
una piattaforma di cemento sul mare agitato e sulfureo. A un
centinaio di metri era ormeggiata una tozza portacontainer, collegata
con un grosso tubo di gomma a un purificatore d’acqua, un cubo
semisommerso poco lontano. Avevo considerato l’idea di fuggire a
nuoto verso la nave, ma l’ispettore mi aveva già informato che, se
non mi avesse sistemata lui, l’avrebbero fatto le correnti. Per quanto
nelle ultime ore avessi capito che l’abilità di Silva nel condurre una
doppia vita mi faceva sembrare una dilettante, gli credevo. D’altro
canto, il rischio mi eccita. E poi vedevo qualcosa che a lui sfuggiva:
alle sue spalle, un uomo avanzava verso di noi sulla spiaggia, lento
ma determinato. Dubitavo che fosse un semplice passante, dal
momento che imbracciava un fucile d’assalto.
«O ci fermiamo qui, oppure torna in città con me e scopriamo se
possiamo collaborare.» La voce di Silva era ferma, come la mano
che reggeva la pistola.
«Collaborare?» Avrei potuto ripensare a tutto ciò che avevo
combinato, agli eventi che mi avevano portata fin lì, a quello in cui mi
ero trasformata. Ma non lo feci. «Avanti. Spari pure.»
Quando il colpo partì, Silva sembrò più stupito di me. Dopotutto,
era la seconda volta nell’arco di una settimana che qualcuno
cercava di uccidermi. Ma il proiettile non era stato sparato dalla
Caracal dell’ispettore, ancora puntata al mio torace, bensì dalla
spiaggia. Pian piano, senza abbandonare la posizione, l’ispettore si
voltò verso la figura ai piedi della scogliera.
L’uomo aveva sparato in aria, a titolo di avvertimento. Ero tentata
di sottolineare che almeno una persona, qui, faceva sul serio, ma
non era il caso. Sentivo un lieve odore di polvere da sparo che si
levava nel cielo grigio acciaio di dicembre.
«La ragazza. Lascia andare la ragazza!» gridò l’uomo.
«Sai nuotare?» sibilai, rivolta all’ispettore.
«Non scherzavo, sulle correnti.»
«Allora prendimi. Tienimi di fronte a te. Poi aggrappati al tubo.»
«E se ti spara?»
«Stavi per farlo tu.»
«La ragazza!» Adesso il fucile era puntato su di noi.
Silva si lanciò in avanti, mi afferrò una spalla e mi tenne di fronte a
sé, girando come se stessimo ballando, in modo da dare la schiena
al mare agitato. Ora c’ero io, nel mirino dello sconosciuto. Se non
altro, qualcosa era cambiato.
Il
fucile e l’uomo che lo impugnava avanzavano sulla ghiaia
punteggiata di rifiuti. «Ti ho detto di lasciarla andare!»
Facendosi scudo con il mio corpo, un braccio piegato sotto il mio
mento, Silva fece un passo indietro, poi un altro e un altro ancora.
Sentii la sua stretta allentarsi, poi sciogliersi del tutto. Un altro sparo
echeggiò sopra la mia testa mentre mi gettavo faccia in giù sul
cemento, con le mani aperte sotto le spalle.
Ci fu uno splash, seguito da un lungo silenzio. Mi voltai. Silva mi
aveva appena detto che, se avessi tentato la fuga, le correnti mi
avrebbero catturato in pochi secondi, ma era riuscito ad arrivare al
tubo. Ci si aggrappava, con le gambe allungate sotto le onde.
Sulla spiaggia, l’uomo col fucile si era messo a correre. Avevo
una ventina di secondi prima che mi raggiungesse, non abbastanza
per riflettere. Il tubo era alla mia sinistra, potevo raggiungerlo in
poche bracciate. Mi girai, trattenni il fiato e mi lasciai cadere in
acqua.
Silva non aveva mentito. La corrente era così forte che faceva
rumore, un risucchio denso e insistente tra le onde, sotto i tonfi del
tubo pressurizzato. Il freddo avrebbe potuto togliermi il fiato, se ne
avessi ancora avuto. Il giubbotto pesante – ormai un sudario
inzuppato – mi si era impigliato sulla testa. Mi sbracciavo, artigliavo
accecata dal sale e dal tremito fatale del panico. Quando emersi,
sentii fischiare un altro proiettile. Disperata, cercai di avvicinarmi al
tubo increspato. Ci misi la sopra la coscia, premendo la faccia sulla
gomma viscida che oscillava alle pulsazioni dell’acqua all’interno. Mi
tirai via il giubbotto dalla spalla con i denti, liberandomi il braccio
destro. Lo allungai sotto il tubo per fare presa e cercai di fare lo
stesso con il sinistro, proprio mentre un’onda mi colpiva in pieno
volto. L’acqua salata mi strappò dal maledetto arnese di gomma. Ero
più piccola di Silva e il tubo era troppo largo perché potessi
ripararmici sotto e allo stesso tempo respirare. Dovevo salirci sopra,
issandomi con le braccia. Se non altro ci vedevo, anche se avrei
preferito di no: vidi l’uomo sulla piattaforma a cavalcioni del tubo, che
prendeva la mira per sparare di nuovo. Ma non era a me che mirava.
Silva doveva essere da qualche parte nelle vicinanze.
Lo sconosciuto avanzava cauto sulla grossa colonna di gomma,
stringendola tra le cosce. Più in là, la nave beccheggiava, senza
segni di vita. Come sarebbe finita, se ci fossimo arrivati? Avremmo
dovuto risolverla con una scazzottata sul ponte? Non avevo niente
per difendermi, eccetto il fermaglio nella tasca posteriore dei jeans:
ero riuscita a prenderlo la sera prima, a Venezia, quando ero
convinta che Silva mi volesse arrestare per omicidio. Quando la vita
era rilassante. Se ne avessi avuto il tempo, avrei potuto provare una
certa malinconia.
Era una pinza per capelli a becco d’anatra, lunga una decina di
centimetri e leggermente ricurva. La tirai fuori con le dita ghiacciate.
Pensa, Judith. Non era certo un’arma, sempre che l’uomo con il
fucile mi permettesse di avvicinarmi quanto bastava per usarla. Ma
non si era dimostrato molto cavalleresco e dubitavo che si facesse
scrupoli sui danni collaterali che poteva causare. Strinsi il fermaglio
tra i denti e mi trascinai avanti, conquistando qualche metro con la
forza della disperazione. Poi scivolai in acqua, con le gambe strette
intorno al tubo, impugnando il fermaglio mentre mi riempivo i
polmoni di aria. A occhi serrati per proteggerli dal sale, tastai le
increspature rigide della gomma spessa, quindi conficcai il
fermacapelli nel tubo. Ci entrò con facilità. Infine tirai con tutte le mie
forze e lo sfilai.
L’acqua pressurizzata schizzò fuori e il tubo scattò verso destra
come un serpente gigante. Per un attimo mi tirò in superficie, prima
che un’altra onda mi sommergesse. Cercai di aggrapparmi con le
braccia, ma era troppo grosso e non riuscivo a fare presa. Un altro
scossone mi scagliò via. Qualche frenetica bracciata mi fece
riemergere, ma la corrente mi trascinava verso il tubo impazzito.
Dell’uomo armato non c’era più traccia. Boccheggiai e l’acqua
salmastra mi bruciò la gola. La portacontainer era ancora a una
cinquantina di metri, tuttavia la corrente mi trascinava nella direzione
opposta a una velocità allarmante. Galleggiavo inerte. Qualsiasi
tentativo di nuotare era fatica sprecata: ero esausta, con il peso dei
vestiti addosso, e non potevo fare altro che andare alla deriva.
Abbandonando la testa all’indietro sull’acqua profonda e indifferente,
ricordo di avere pensato quanto fosse strano che non sentissi più
freddo.
«Qui! Da questa parte!»
Mi chiesi perché non avessi sentito il motore del gommone, ma la
voce di Silva era quasi oscurata dal fruscio nelle mie orecchie, come
il rumore del mare in una conchiglia. Le sue urla spezzavano quella
calma irreale. Non può smetterla e lasciarmi in pace? L’unica cosa
che potevo fare era privarlo della soddisfazione di dargli ascolto.
Smisi di muovere le gambe e scivolai nella culla del mare.
Era buio, quando riaprii gli occhi. Sembrava proprio notte: tra le nubi
color carboncino si intravedeva a tratti una luna crescente. Era stato
il freddo a svegliarmi. Il mio corpo tremava nei vestiti fradici, irrigiditi
dall’acqua salata. Battevo i denti come un giocattolo a molla. A
quanto pareva, ero distesa sul fondo di legno del gommone, che mi
tormentava la zona lombare a ogni sobbalzo sulle onde. Il ronzio del
motore mi trapanava le orecchie già doloranti. Una fila di LED a
poppa illuminava Silva, seduto placido al timone. Per un attimo mi
chiesi se fossi all’Inferno: ero forse condannata a percorrere lo Stige
per l’eternità, con la sola compagnia dell’ispettore? Ma il dolore alle
cosce e la sete nauseante mi lasciavano intendere – tutto sommato
con disappunto – che ero ancora nel regno dei vivi.
Cercai di mettermi a sedere, battendo la testa contro il sedile
posteriore.
A quel rumore, Silva si voltò. «Stai bene, allora.»
Avevo il braccio destro scoperto e piegato in una posizione
scomoda dietro la testa. Quando cercai di muoverlo, sentii il metallo
intorno al polso che mi graffiava la pelle bagnata.
«C’è un po’ d’acqua, vicino a te.»
Con la sinistra trovai a tentoni una bottiglia di plastica. L’Evian mi
sembrò più buona di un Lafitte del ’73. «Stronzo», dissi, senza
particolare enfasi.
«Perché?»
«Ti ho salvato la vita, prima. Poteva spararti. Avrebbe potuto
sparare a me invece che a te.»
«E io ho salvato te, no?»
Dovevo ammettere che c’era una certa logica. «Dove stiamo
andando?»
«Taci.»
«Ho freddo.»
«Taci.»
Stirai le gambe indolenzite fin dove potevo, ma c’era ancora una
certa distanza tra i miei piedi e lui. Anche se fossi riuscita a dargli un
calcio e buttarlo fuoribordo, mi sarebbe stato impossibile
raggiungere la barra, ammanettata com’ero. E poi? Non avevo soldi,
né telefono, né documenti. Se fossi riuscita ad approdare da qualche
parte, avrei dovuto fare l’autostop per mille chilometri e passa per
raggiungere il mio appartamento a Venezia. Che al momento
ospitava un cadavere. Non era una prospettiva attraente. E in più mi
sentivo a pezzi, nauseata dall’acqua di mare che avevo bevuto,
dolorante e piena di lividi, congelata in jeans e maglietta fradici in
una notte di dicembre. Ero naufraga in mezzo al nulla, con uno
sbirro italiano corrotto che ore prima mi stava per sparare e che
sembrava essere sotto tiro a sua volta. Ma che bella gita. «Da dove
viene il gommone?»
«L’ho preso in prestito, okay? Dalla portacontainer. Non c’era
tempo di chiedere il permesso. L’ho slegato e basta.»
«Hai visto cos’è successo al nostro amico?»
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