Storia di Uliviero – Milagros Branca

SINTESI DEL LIBRO:
Baldovino era un ragazzo di sedici anni appena compiuti. Sebbene
Nennella non avesse altri metri di paragone in quella landa desolata,
le era chiaro che Baldovino Benci era un gran bel ragazzo dai capelli
ricci e biondi, sempre arruffati. Aveva un modo di muoversi
selvaggio, aveva anche gli occhi selvaggi e le mani. Così lo vedeva
lei.
«Ma cosa vuol dire? Selvagge mani, selvaggi occhi, ma cosa stai
dicendo, Nenè? Sei impazzita?» la rimproverava Nunzia.
E Nennella, immancabilmente, le rispondeva: «Nunzia, ma non
vedi quanto è bello Baldovino?»
«Ma neanche sa che esisti, Nenè! Invece di dire stupidaggini vieni
ad aiutarmi», la incalzava Nunzia.
Un quarto di secolo dopo quella lontana e insolitamente afosa
primavera, Nennella ripercorreva con gli occhi socchiusi quei giorni,
quando la vita era leggera e la spensieratezza della giovinezza non
tesseva trame tristi. Non c’era spazio per il dolore, per il pentimento
e il rammarico. Erano i giorni del sole raggiante e caldo, i giorni della
speranza, dove tutto era possibile. Bastava sognarlo.
Si rivedeva sdraiata su un prato mentre Baldovino sfogliava una
margherita sparpagliandole i petali sul ventre. Nennella con le
braccia si aggrappava al suo collo mentre lui le sussurrava parole
d’amore. Era stato molto naturale, Nennella se ne infischiava di tutti:
del diavolo, di Gesù, della madre che dal cielo la potesse vedere,
così come sua nonna e forse anche suo nonno. Le importava
soltanto accogliere quel corpo dentro il suo, mentre il vento le
scompigliava i capelli e gli steli d’erba le solleticavano il collo. Quello
che stavano facendo era semplicemente l’atto d’amore più bello, e
se anche fosse finita giù all’inferno, per Nennella era irrilevante.
Baldovino le apparteneva, e lei a lui. Non c’era nulla che potesse
rovinare la felicità di quei giorni d’innocenza.
Sua sorella era stata la tacita complice di quella passione proibita.
Nella solitudine di quel luogo remoto, il figlio del padrone non poté
fare altro che innamorarsi di quella stupenda fanciulla giunta nel loro
podere poco più di un anno prima, con il padre vedovo e la sorella
maggiore. Baldovino aveva trovato il modo di fare subito amicizia
con Nennella sin dai primi giorni del loro arrivo. La osservava mentre
si recava al pozzo per attingere l’acqua col secchio o mentre
distribuiva il mais, da un sacco di iuta, alle galline dell’aia. Si era
avvicinato con una banale scusa per accertarsi che fosse bella come
sembrava da lontano. Aveva una massa di capelli neri trattenuti da
un fazzoletto rosso, gli zigomi disegnati e la fronte alta, le labbra
carnose, il naso perfetto e due occhi color dell’ambra, incorniciati da
lunghe ciglia. Nunzia era molto diversa: più minuta, con i capelli
castani più corti di quelli di Nennella e portati sulle spalle con un
taglio disordinato, che probabilmente le aveva fatto la sorella. Nunzia
non aveva la sua bellezza, ma il suo sguardo profondo denotava una
serietà fuori dal comune per quell’età. Nunzia aveva un anno più di
Nennella, che ne aveva appena quattordici.
Baldovino era l’unico figlio dei baroni Benci e il suo unico
compagno era un cagnolino, Timoteo, un bastardino dal muso che
cominciava a essere incorniciato da baffi e barbetta bianchi
facendolo sembrare un saggio vecchietto. La presenza delle due
ragazzine lo rese fuori di sé dalla gioia. Si accorse che tutti i giorni, a
orari precisi, poteva scorgerle scalze, nel cortile di casa, portare dei
secchi d’acqua attraversando quasi in punta di piedi i porticati
dell’immensa masseria del padre.
«Chi sono, Maestro, quelle ragazze?» chiese a Marino Filippi, il
precettore incaricato di educarlo dal barone suo padre, per non
essere da meno dei suoi coetanei in città.
«Mi è stato detto che è arrivato un nuovo mezzadro e che ha
portato le due figlie perché essendo vedovo non sapeva a chi
lasciarle. Tuo padre ha generosamente acconsentito. Pensava che ti
avrebbe giovato un po’ di compagnia femminile. Stanno in un
alloggio nelle casette dei braccianti», rispose Filippi.
A Filippi era sfuggito il vero intento del padre di Baldovino:
permettendo a quell’uomo di tenere con sé le figlie, aveva pensato
che il ragazzo, diventato ormai uomo, avrebbe potuto trovare il
giusto sollievo alle sue intemperanze giovanili.
Il
barone Benci mai più poteva immaginare lo scompiglio che
questo arrivo inaspettato avrebbe provocato nel cuore di Baldovino.
Come per tutti l’Amore, inevitabilmente e senza alcun preavviso, si
insinua sornione nel nostro animo facendoci inciampare durante il
percorso della nostra vita. Come se due mani giocose ci coprissero
di colpo gli occhi mentre siamo occupati a vivere i nostri giorni. A
nostra insaputa, senza che lo possiamo controllare, ci prende
l’anima e ci rapisce i pensieri. Ci imprigiona.
Notti agitate e insonni. Giorni dal tempo scandito da sussulti,
tormenti, sospiri e batticuori, che ci travolgono e non ci lasciano
scelta. Ci abbandoniamo, così, sapendo che a nulla varrebbe
opporsi alla forza di quell’onda, che ci porta alla deriva a bordo di
una scialuppa fatta di sogni, sperando solo di perderci per sempre.
Un sentimento, il loro, puro e profondo che non li abbandonò più:
Baldovino e Nennella si erano innamorati.
Purtroppo dovevano sottostare a regole severe che non potevano
essere ignorate. Senza fare salti troppo in avanti nel tempo, mi è
concesso solo anticiparvi che quando si separarono lo fecero con la
rassegnazione di quando il rango divide anche le vite. Finché fu
possibile, si lasciarono vivere. Ma soffrire per amore può avere un
fascino perverso e ammaliante.
Così passò la primavera, poi l’estate e l’autunno.
Il
barone interpellò il maestro Filippi. Il padre temeva che le
distrazioni amorose del figlio potessero nuocere agli studi.
Filippi si premurò di tranquillizzarlo: Baldovino era un ragazzo con
la testa sulle spalle, sapeva sin troppo bene che doveva studiare per
diplomarsi e che quella ragazza non comportava alcun rischio.
«Barone, mi permetta, lasci tempo al tempo, vedrà, tutto passa.
Anche questo», lo rassicurò Filippi.
Il
maestro mentiva. Adorava Baldovino come fosse suo figlio e
aveva compreso che Nennella, con la sua prepotente bellezza di
ragazza del Sud, aveva rapito comprensibilmente il cuore del suo
unico allievo. La legge dell’attrazione degli opposti: Baldovino dai
riccioli biondi e dagli occhi blu come il cielo nitido d’inverno prima
che arrivi la notte. Il vero pericolo era che il ragazzo ambiva ad
allontanarsi per studiare all’università, anche se il padre non lo
avrebbe lasciato andare. Il barone Benci era rimasto vedovo come il
suo mezzadro. Sua moglie, la baronessa Costanza, era morta di
parto dando alla luce una coppia di gemelli, morti assieme alla
madre quando Baldovino, il primogenito, aveva cinque anni.
Il bambino diventò l’unica ragione di vita del barone, che non si
lasciò morire di dolore appigliandosi con tutte le sue forze al dovere
di crescere da solo il figlio che dalla morte della madre aveva gli
occhi velati di tristezza, nonostante fosse un bimbo vivace e curioso.
Spesso si defilava, accompagnato dal suo cagnolino Timoteo, per
raggiungere luoghi che solo lui conosceva, addentrandosi nell’uliveto
centenario per pensare a sua madre. Lì dava sfogo alle lacrime,
immaginandosi come tutto sarebbe stato migliore se la sua mamma
fosse stata ancora viva.
Nonostante l’assenza della madre, Baldovino crebbe sereno in
quell’universo maschile che era il podere del padre dove femmine
non ce n’erano, non per scelta ma per pura casualità. Persino chi si
occupava della cucina era un cuoco: cosa inusuale a quei tempi
nelle case private dove i lavori domestici erano riservati alle donne.
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