Stendhal – Stefan Zweig

SINTESI DEL LIBRO:
Pochi hanno mentito e appassionatamente mistificato il mondo
più di Stendhal, pochi hanno detto la verità meglio e più
profondamente. I suoi camuffamenti e le sue prese in giro si contano
a centinaia. Prima ancora di aprire un libro, la prima ci salta agli
occhi fin dalla copertina o dalla prefazione, perché l’autore Henri
Beyle non si attiene mai puramente e semplicemente al suo vero
nome. Talvolta si attribuisce di propria iniziativa un titolo nobiliare,
altre si traveste da «César Bombet» o aggiunge alle sue iniziali H.B.
un misterioso A.A., dietro al quale neppure il demonio potrebbe
sospettare un assai modesto «ancien auditeur»: in italiano, un ex
uditore di Stato. Solo nello pseudonimo, nell’indicazione falsa, si
sente al sicuro. Una volta si maschera da pensionato austriaco,
un’altra da «ancien officier de cavalerie», di preferenza col nome,
incomprensibile ai suoi compatrioti, di Stendhal (da una piccola
cittadina prussiana che diventò celebre per quel capriccio
carnevalesco). Se inserisce una data, si può star certi che essa non
corrisponda; se nella prefazione alla Certosa di Parma racconta che
il
libro è stato scritto nel 1830 e precisamente a quasi duemila
chilometri da Parigi, quest’uscita da Eulenspiegel non impedisce che
in realtà egli abbia scritto il romanzo nel 1839 e precisamente nel
cuore di Parigi. Anche nei dati di fatto le contraddizioni fioccano
allegramente. In un’autobiografia riferisce pomposamente di essere
stato sui campi di battaglia di Wagram, Aspern ed Eylau. Non una
sola parola è vera, perché il suo diario prova incontestabilmente che
alla stessa ora se ne stava comodo e tranquillo a Parigi. Alcune volte
parla di un lungo e importante colloquio con Napoleone, ma, guarda
la fatalità, nel volume successivo si legge, molto più credibile, la
confessione. «Napoleone non si intratteneva con pazzi della mia
specie». Perciò con Stendhal bisognerà prendere con cautela ogni
singola affermazione e vagliare con sospetto ancora maggiore le
lettere che, a sua detta per paura della polizia, inizia per principio
con una data falsa e firma ogni volta con uno pseudonimo diverso.
Se passeggia piacevolmente per Roma, indica di certo come luogo
di partenza Orvieto; se mostra di scrivere da Besançon, quel giorno
era di sicuro a Grenoble; a volte è la data ad essere di proposito
ingannevole, perlopiù il mese, e quasi di regola la firma. Di queste
firme fantastiche i meticolosi biografi ne hanno pescate finora oltre
duecento: Stendhal (dunque Henri Beyle) firma la sua
corrispondenza alternativamente come Cottinet, Dominique, Don
Flegme, Gaillard, A.L. Feburier, Baron Dormant, A.L. Champagne e
perfino con nomi di altri poeti come Lamartine o Jules Janin. Ma non
era soltanto, come alcuni credono, la paura del temibile gabinetto
della polizia austriaca a indurlo a simili farse, ma un’innata, istintiva
tendenza a bluffare, a stupire, a dissimularsi, a nascondersi.
Stendhal mente volentieri anche senza un apparente motivo, con
l’unico scopo di rendersi interessante o di non far apparire la sua
personalità più autentica; fa volteggiare mistificazioni e pseudonimi
come un fioretto ideale intorno alla propria persona per impedire che
qualche curioso gli si avvicini troppo. E di questa appassionata
tendenza all’imbroglio e all’intrigo non ha mai fatto mistero. Quando
in
una lettera un amico lo accusa irritato di aver mentito
vergognosamente, lui nota a margine con pacatezza: «vrai»,
«sicuro! proprio così!». Con candida sfacciataggine e ironico
compiacimento infila nei documenti d’ufficio date di servizio false,
simula sentimenti lealisti sia contro i Borboni che contro Napoleone; i
suoi scritti, quelli pubblici e quelli privati, sono un proliferare di
alterazioni. E l’ultima delle sue mistificazioni (apice di tutte le
menzogne!) è perfino incisa nel marmo – per espresso desiderio
testamentario – della sua pietra tombale nel cimitero di Montmartre.
Qui si legge ancora oggi la falsa indicazione: «Arrigo Beyle,
milanese», come segno dell’ultima dimora di colui che era stato
battezzato col nome francese Henri Beyle ed era nato (con suo
grande disappunto!) nell’amara città di provincia di Grenoble. Perfino
alla morte ha voluto presentarsi sotto una maschera: anche per lei
ha scelto un travestimento romantico.
Tuttavia, e malgrado tutto ciò, pochi uomini hanno confessato al
mondo più verità sul proprio conto di questo maestro della
simulazione. Stendhal sapeva, all’occorrenza, essere vero con la
stessa accuratezza con cui gli piaceva mentire. Con una mancanza
di riguardi che sulle prime sbalordisce, quando addirittura non
spaventa, e che solo in seguito avvince, ha osato esprimere per la
prima volta, ad alta voce e senza mezzi termini, alcune delle
esperienze più intime e alcune osservazioni introspettive che altri
nascondono in fretta o ricacciano sulla soglia della coscienza:
Stendhal fa, volontariamente e con scrupoloso rispetto dei fatti, una
quantità di confessioni che di solito il pudore non si lascerebbe
strappare nemmeno sotto tortura. Ha esattamente lo stesso
coraggio, anzi la stessa sfrontatezza, nel dire la verità e nel mentire;
in un caso e nell’altro salta, con incredibile noncuranza, oltre i limiti
delle convenzioni sociali e supera tutti i confini e tutte le barriere
della censura interna. Ombroso nella vita, timido con le donne,
nascosto e trincerato dietro i bastioni blindati della simulazione,
diventa subito coraggioso quando prende in mano la penna; allora
non c’è freno che lo tenga. Al contrario: ovunque incontri resistenze
le afferra, se ne impadronisce per poterle dissezionare con la
massima oggettività. Ed è esattamente quello che più lo inibisce
nella vita, ciò che meglio domina sul terreno della psicologia. Così
ha fatto saltare fin dal 1820, con un vero colpo di genio, alcune tra le
barriere più ermetiche della meccanica psichica; le stesse che solo
cento anni dopo la psicanalisi avrebbe scomposto e ricostruito con i
suoi apparati complessi e ingegnosi: la sua innata e addestrata
audacia di psicologo di colpo supera di un secolo il paziente
procedere della scienza. Eppure Stendhal non dispone di altri
laboratori che della propria osservazione; non si basa per il suo salto
verso l’ignoto su nessuna rigida teoria: il suo unico strumento è, e
rimane, una curiosità dura, tagliente e molto acuminata, e la sua
virtù professionale, un coraggio indomabile nel dire la verità a
dispetto di tutti i pareri. Osserva ciò che sente, e ciò che sente lo
esprime francamente e sfacciatamente: se la confidenza è più
audace, meglio ancora, e più è intima, più cresce la passione. I suoi
sentimenti peggiori, i meglio celati, sono quelli che indaga più
volentieri: mi limito a ricordare quante volte e con che fanatismo si
vanti del suo odio per il padre, e con che scherno riferisca di essersi
invano affaticato un mese intero per provare dolore alla notizia della
sua morte. Le più penose confessioni delle sue limitazioni sessuali,
dei suoi continui insuccessi con le donne, delle crisi della sua vanità
smisurata, Stendhal le traccia davanti al lettore con la stessa
oggettività esatta e minuziosa di una carta topografica militare: ed è
così che in lui si trovano, vergate con freddezza clinica,
comunicazioni di una sincerità a tal punto privata e sottile che
nessuno prima di lui avrebbe osato esprimere a parole né tantomeno
affidare stampate alla pubblica indiscrezione. Ha avuto il merito di
fissare per sempre nel chiaro cristallo trasparente ed egoisticamente
gelido della sua intelligenza alcune tra le più preziose scoperte
dell’anima, conservandole per la posterità. Senza questo singolare
maestro della simulazione, conosceremmo molte meno verità
sull’universo dei sentimenti e sui suoi sotterranei misteri.
Così si spiega l’apparente contraddizione: è proprio alla scienza
della simulazione, alla tecnica della menzogna, che Stendhal deve
l’arte di riconoscere la verità. Niente gli ha giovato di più, ha
confessato una volta, che l’aver vissuto in un ambiente familiare
noioso e aver dovuto simulare fin da bambino. Poiché solo chi ha
osservato svariate volte su di sé con che agilità una bugia scappi
dalle labbra e con che fulminea rapidità la sensazione scolori e si
trasformi dal cuore alla bocca, solo un simile esperto in finte e parate
sa, (e assai meglio degli onesti benpensanti) «quante misure di
sicurezza siano necessarie per non mentire». In innumerevoli
autoesperimenti, questo spirito vivo e allenato ha visto con che
rapidità un sentimento, non appena si senta osservato, provi
imbarazzo e fugga rapido a camuffarsi, e come dunque occorra, di
colpo e con uno strappo, con temerarietà fulminea e brutalmente,
come fa il pescatore con l’amo, tirare su ogni percezione dal
continuo fluire della coscienza, trarre a sé la verità nell’attimo breve
in cui, senza travestimenti, senza veli e credendosi inosservata, osa
avanzare nuda fino ai margini della coscienza. Afferrare
autosservazioni del genere, fissarle con la matita prima che tornino a
rifugiarsi nel subconscio o prendano i colori protettivi della
simulazione, costituiva la gioia particolare di questo abile e
appassionato cacciatore della conoscenza, e Stendhal era troppo
astuto per non sapere che simili secondi di caccia fortunata sono
rari, infinitamente preziosi come lo stesso bottino. E, strano a dirsi,
pochi hanno avuto nella loro vita tanto rispetto della verità quanto
Stendhal, il maestro delle menzogne; egli sapeva bene che la verità
non sta ad aspettare agli angoli della strada, né si espone alla piena
luce del sole, disponibile a lasciarsi accarezzare da mani grossolane
o a farsi abbindolare da chiunque; sapeva, l’astuto Odisseo del
cuore, che le verità sono lucertole che vivono nelle cavità e temono
la luce, sgusciano via ad ogni passo incauto e sfuggono agilmente
ad ogni presa: bisogna avere un passo leggero per strisciare
accanto a loro, mano pronta e lieve e occhi abituati a vedere anche
nelle tenebre. E soprattutto una passione dominata dall’intelligenza,
psicologicamente dotata di ali, curiosità, spirito di osservazione e
intuito; bisogna, come dice lui stesso, «avere il coraggio di scendere
fino ai minimi dettagli» nell’intricato labirinto dei nervi e tra le oscure
mura dell’anima: solo là si colgono talvolta al volo minuscole nozioni
aforistiche, piccole ma complete verità, schegge e frammenti di
quell’eterna, irraggiungibile e inafferrabile «verità» che gli spiriti rozzi
credono murata nei mausolei dei loro sistemi o prigioniera nell’aerea
gabbia delle loro teorie. Invece lui, il sedicente scettico, le conferisce
in fondo un più alto valore; lui, il sapiente, ne conosce l’istantaneità e
rarità e soprattutto sa che essa non si lascia chiudere in gabbia
come un uccello, né vendere o comprare; sa che la Verità si mostra
solo a pochi.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo