Spider – Patrick McGrath

SINTESI DEL LIBRO:
Ai miei genitori, Helen e Pat
"Il mio nome è Ozymandia, re dei
re: guarda le mie opere, o Possente,
e dispera!" PercyB.Shelley
Ho sempre trovato strano il fatto che
riesco a ricordare gli avvenimenti
della mia giovinezza con chiarezza e
precisione, mentre le cose accadute
ieri sono confuse, e non ho alcuna fi
ducia nella mia capacità di ricordarle
accuratamente. C'è forse qualche
procedimento di fissaggio, mi
chiedo, per cui il tempo, anziché far
svanire i ricordi (come ci si
aspetterebbe), fa il contrario — li
rende solidi come cemento, l'esatto
opposto della poltiglia che mi
sembra di ottenere quando cerco di
parlare di ieri? L'unica cosa che
posso dire con sicurezza — su ieri,
cioè — è che c'erano di nuovo
persone in solaio, persone della
signora Wilkinson — e questa è una
cosa curiosa, una cosa che mi è
sfuggita fino a questo momento: la
persona che gestisce la pensione in
cui vivo (solo temporaneamente) ha
lo stesso cognome della donna
responsabile della tragedia che colpì
la mia famiglia vent'anni fa. A parte
il nome, non c'è alcuna somiglianza.
La mia signora Wilkinson è una
creatura
completamente diversa da Hilda
Wilkinson; si tratta di una donna
acida e vendicativa, grande, è vero,
com'era grande Hilda, ma senza
niente della verve e della vitalità di
Hilda, molto
più interessata alle questioni di
controllo — il che mi riporta alle
persone in solaio ieri notte; ma di
loro, a pensarci, credo che parlerò
un'altra volta.
Mi ci vogliono circa dieci minuti per
tornare dal canale alla casa della
signora Wilkinson. Non sono un
camminatore veloce; vagabondo, più
che camminare, e spesso sono co
stretto a
fermarmi di colpo in mezzo al
marciapiede. Mi dimentico come si
procede, capite, perché non c'è più
niente di automatico in me da
quando sono tornato dal Canada. Le
azioni più semplici — mangiare,
vestirmi, andare in bagno — a volte
possono porre problemi
insormontabili, non perché io sia in
qualche modo handicappato, ma
piuttosto perché perdo il naturale,
fluido
senso di essere-nel-mio-corpo che
avevo una volta; il legame fra
cervello e membra è un meccanismo
delicato, e per me spesso, ora,
diventa scollegato. Con fastidio di
chi mi
circonda, devo allora fermarmi e
decidere quello che sto cercando di
fare, finché lentamente i ritmi di
base si ristabiliscono. Quanto più
sono coinvolto nei ricordi di mio
padre, tanto più frequentemente ciò
sembra accadere, per cui suppongo
che mi aspettino alcune settimane
diffìcili. In questi casi, la signora
Wilkinson si spazientisce con me, e
questa è una delle ragioni per cui
intendo lasciare la sua casa,
probabilmente all'inizio della
settimana
prossima. Ci sono altre cinque
persone che vivono qui, ma io non
presto attenzione a loro. Non escono
mai; sono creature apatiche, passive,
anime morte come ne ho incontrate
spesso oltremare. No, io preferisco
le strade, perché sono cresciuto in
questa parte di Londra, nell'East
End, e
benché in un certo senso i
cambiamenti siano totali, e io sia un
estraneo, in un altro senso nulla è
cambiato: ci sono fantasmi ed
esistono ricordi che spuntano a
grappoli quando getto un'occhiata
sotto un ben noto ponte ferroviario,
a un ben noto angolo del fiume al
tramonto, ai gasometri, che non sono
cambiati affatto. I miei ricordi hanno
un modo particolare di
affollarsi sulla scena e far crollare il
blocco di tempo che separa allora da
ora, producendo una sorta di identi
tà, una sorta di percorso parallelo di
passato e presente tale che ne
resto confuso e mi dimentico —
tanto ricchi e immediati appaiono —
che io sono quello che sono, una
ragnesca figura vagabonda, con un
vestito rovinato, e non un sognante
ragazzo di dodici anni circa. È per
questa ragione che ho deciso di
tenere un diario.
Questa è davvero una casa molto
particolare. La mia camera è
all'ultimo piano, appena sotto il
solaio. I bauli e le valigie degli
ospiti della signora Wilkinson sono
sistemati lassù,
per cui non riesco a immaginare
come possano fare tutto il rumore
che fanno, a meno che non siano
molto piccoli. Prima di andarmene,
ho intenzione di salire e risolvere la
faccenda con loro, perché non ho
avuto una notte di sonno tranquillo
da quando sono qui — anche se
naturalmente non ha senso dire
questo alla signora Wilkinson, se ne
frega, perché altrimenti non mi
avrebbe messo quassù. C'è un
tavolino piuttosto instabile sotto la
finestra, ed è lì che siedo quando
scrivo. In questo momento sono
seduto lì, in effetti; davanti a me c'è
il
mio quaderno, con tutte le pagine
ben rigate; reggo una matita spuntata
con le dita lunghe e affusolate. Mi
chiedo dove dovrei nascondere il
quaderno quando non lo uso; credo
che per il momento lo infilerò
semplicemente sotto il foglio di
carta di giornale che ricopre il fondo
dell'ultimo cassetto del mio comò;
più tardi, cercherò un luogo più
sicuro.
Non che ci siano tante possibilità!
Ho un lettino con la struttura di
ghisa e un sottile, frusto materasso
disteso sulle poche molle
dolorosamente cigolanti quando io
giaccio su di esso; per me, questo
letto è corto di circa quindici
centimetri, per cui i piedi mi
sporgono all'estremità. Ci sono un
piccolo tappeto liso sul linoleum
verde crepato e un gancio fissato al
l'uscio, da cui pendono due ometti di
fìl di ferro, che oscillano tintinnando
quando apro la porta. La finestra è
sporca, e anche se scorgo il piccolo
parco dall'altra parte della
strada, non posso mai essere sicuro
di vedere quello che credo di
scorgere laggiù, tanto è scarsa la
visibilità. La tappezzeria è di un
triste verde giallognolo, con un
disegno
floreale molto tenue, in alcuni punti
cancellato fino a rivelare la
precedente carta da parati e lo stucco
sottostanti; dal soffitto pende una
lampadina, celata da un paralume a
forma di cappello in qualche
materiale simil-pergamena;
l'interruttore è vicino alla porta, e
così devo attraversare la stanza al
buio dopo aver spento la luce, cosa
che odio. È qui, per ora, che vivo.
Ma almeno non sono lontano dal
canale. Ho trovato una panchina
vicino all'acqua, in un punto riparato
che posso definire "personale", dove
mi piace passare il pomeriggio senza
che
nessuno mi disturbi. Da questa
panchina, ho una chiara visuale dei
gasometri, e la vista mi ricorda
sempre mio padre: non so perché,
forse per il fatto che era un idraulico
e una figura familiare in questo
quartiere quando pedalava sulla bici
cletta con la borsa di stoffa degli
attrezzi buttata su una spalla come
una faretra piena di frecce. Le strade
erano strette a quel tempo,
fiancheggiate da scure, squallide
catapecchie accostate l'una all'altra,
con
dietro dei cortiletti minuscoli — tu
bazioni esterne e fili per stendere
tesi fra muro e muro, e i cortili
davano su vicoli in cui magri gatti
randagi rovistavano nei bidoni della
spazzatura.
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