Siamo riflessi di luce – Samuel Miller

SINTESI DEL LIBRO:
Con le mani stringo il volante mentre l’acqua s’infiltra tutt’intorno a
me, dalle crepe nel finestrino, ammaccando le fiancate della Camaro
con la sua pressione.
Se ci pensate, affondare somiglia molto a essere lanciati nello
spazio. Galleggi senza la costrizione della gravità e ogni cosa va al
rallentatore, senza peso, muovendosi con te da un mondo all’altro.
Ti aspetti troppo da me.
Ognuno dei miei arti è assicurato a una diversa cintura di
sicurezza; ce ne sono cinque a tenermi fermo mentre vado alla
deriva, sempre più lontano dalla superficie. Quaggiù è più buio.
L’acqua è più fredda. Non si scende mai così tanto quando si nuota.
Hai troppo bisogno di me.
Se riesci a tenere gli occhi aperti abbastanza a lungo, arrivi a
vedere un balletto di relitti. Tutte le piccole cose che ti porti dietro in
macchina – i CD, i libri che poi non leggi, la bottiglia vuota di vino da
tre dollari, il gesso, l’anello – galleggiano ovunque come fossero in
orbita, minuscoli pianeti del tuo sistema solare.
La cintura di sicurezza intorno al torso stringe più forte, facendo
uscire quel poco d’aria che mi rimaneva nei polmoni.
«Va bene!» Una voce mi sta chiamando da una distanza infinita.
Non mi giro neppure a guardare. Viene dall’alto, dalla superficie.
BANG.
Il
finestrino vibra violentemente. Qualcuno sta cercando di
romperlo. Qualcuno sta cercando di tirarmi fuori.
«Va bene!»
BANG.
Dovrei muovermi. Dovrei aiutarli. Dovrei tendere le braccia,
comunicare che sono vivo. Dovrei strapparmi le cinture di sicurezza
e cercare la maniglia della portiera.
Ma non mi muovo. Tengo le mani sul volante, gli occhi fissi in
avanti, oltre il parabrezza. L’ultima aria mi esce di bocca in bolle
piccolissime.
Le guardo una per una. Loro troveranno la strada per arrivare in
superficie, io no. Sto comodo qui.
«Va bene va bene…»
2.
«Allora, gente, va bene! Stiamo per effettuare la nostra fermata alla
stazione Amtrak incredibilmente panoramica e naturalisticamente
splendida di Truckee, patria della tortora luttuosa, dell’usignolo e
della raffineria Exxon, alla vostra destra.
«Chi di voi è diretto al lago Tahoe uscirà dalla porta alla vostra
destra; chi non ci va… insomma, perché diavolo non ci andate? Io
sto lavorando, voi che scusa avete?
«Oggi siamo in anticipo – sì, ragazzi, a volte i miracoli succedono– quindi abbiamo, eh, un pelo meno di tre quarti d’ora prima di
ripartire per Reno. Non ci sono altri treni fino a domani, quindi state
bene attenti a risalire a bordo in tempo; ovvero alle 8.35, se c’è
qualche sportivo tra voi che vuole cronometrare.
«Se accettate un umile suggerimento da un uomo che questo
tragitto l’ha visto una volta o due in vita sua, qui la stazione di
servizio 76 fa il miglior taquito che si possa trovare fuori da Città del
Messico, e questa è la pura verità.
«Ci vediamo fra tre quarti o ci vediamo da altre parti; è tutto dal
vostro brillante e leale capotreno.»
3.
Il treno ebbe uno scossone all’indietro e io mi raddrizzai.
«Tutto bene, Arthur?»
Mio padre mi stava fissando, e sapevo cosa pensava. Erano
passate tre settimane da quand’ero stato in tribunale, e ogni volta
che aprivo gli occhi abbastanza in fretta scorgevo il suo privato,
dolente sguardo da genitore single: due parti di pietà, una parte di
confusione, due parti di Cosa diavolo dovrei farne di questo qui,
adesso?
Erano anni che si allenava con quell’occhiata, dopo che la
mamma era andata via. La nostra casa era abbastanza grande da
permettergli di ignorarmi per la maggior parte del tempo, ma quando
finivamo per incontrarci – a colazione o quando giocava la serie A o
se al mattino entrambi arrivavamo in garage alla stessa ora
vedendomi si accigliava come se fossi un bambino dell’antico Egitto
abbandonato sulla sua soglia. E anche nella realtà aveva avuto più o
meno la stessa possibilità di scelta: la mamma aveva sempre fatto
tutto il lavoro da genitore, ma lui aveva tenuto la casa, perciò avevo
deciso di restare con lui.
Adesso che ero un delinquente, trovava ancora più difficile
mascherare il disappunto per la sua sfortuna.
Indicò oltre la mia spalla, fuori dal finestrino del treno. «Preparati.
L’uragano Karen.»
La zia mi aveva puntato, e mi abbracciò non appena avanzai sulla
banchina quel tanto che bastava a permetterle una buona mira.
«Arthur, siamo così contenti che tu abbia deciso di venire da noi!»
«Zia… ehm… che piacere vederti» dissi io.
La stazione Amtrak a Truckee è più che altro un lastrone di
cemento piazzato in mezzo a un paesotto che non si rende conto di
non essere più nel 1950. Le uniche attività si concentrano proprio
intorno al lastrone: una stazione di servizio, due tavole calde, un
ufficio turistico e sei bar. Un tipo in coda per il bagno, sul treno, mi
aveva detto: «A Truckee, tutti fanno una delle due cose: o bevono,
oppure no». Credo che lui potesse essere considerato un buon
rappresentante della prima categoria.
«Oh, santo cielo, Tim non sta più nella pelle… non vede proprio
l’ora di farti vedere il terrazzo! Ma lo sapevi…»
Notai che sottolineava dei segmenti di frase, tre parole per volta,
come se fosse la conduttrice di un quiz televisivo: non parlava
davvero a me bensì a un pubblico seduto appena al di sopra della
mia testa. Un pubblico che non riusciva a credere che qualcuno
potesse regalare tutti questi soldi.
«Ma lo sapevi che lavoriamo a quel terrazzo da quasi… be’,
indovina. Quanti anni? Quasi? Che dici?»
«Eh, forse sett…»
«Undici! Undici anni!»
Il pubblico del quiz è senza fiato.
«Wow, è una cosa…»
«Hai mai sentito una cosa simile? Il terrazzo ha quasi gli anni del
nostro matrimonio!»
Il pubblico del quiz ride.
«Oh, no, è fantastico.» Strinsi i denti in un sorriso.
Non sembrava opportuno chiarire la cosa, ma non è che avessi
deciso io di andare da loro. La scelta che mi era stata offerta era tra
una lunga “vacanza” nel loro chalet di Truckee oppure in una fattoria
del Nebraska occidentale con lo squilibrato prozio repubblicano della
famiglia, Henry.
Avevo pensato che fosse leggermente più improbabile che io
commettessi un omicidio a Truckee piuttosto che in Nebraska.
«Ha avuto una settimana pesante. Un mese, in realtà» disse mio
padre, afferrandomi per le spalle mentre Karen ancheggiava in
direzione della sua Ford Escape. «Magari non sarà tanto in vena di
chiacchiere.»
«Oh.» La zia si voltò verso di me. «Sappiamo tutto, e devo solo
dire… Arthur, siamo molto, molto fieri di te. Saltare il college, e… e la
mano, e questa ragazza… tutto questo è veramente troppo e…
insomma, sappiamo che ti rimetterai in carreggiata in frettissima.» Le
si formarono delle minuscole lacrime agli angoli degli occhi mentre
mi acchiappava per la nuca e mi attirava in un abbraccio.
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