Sherlock, Lupin & Io – L’enigma del Cobra Reale – Irene Adler

SINTESI DEL LIBRO:
Uno dei segreti più gelosamente custoditi dagli inglesi è che non è vero che
nella loro terra piova così tanto. Sono oltremodo divertiti dall’idea che i
continentali, o, più ancora, quelle anime ingenue degli americani, li
immaginino flagellati da pioggia incessante, infreddoliti nei cappotti e al
riparo di fragili ombrelli.
La Londra che vedevo io ormai da una settimana era, al contrario, baciata
da un sole luminoso, che rendeva ancor più nitido ogni particolare di quel
mio triste ritorno. Non credo che esista durante l’anno un mese più
melanconico di novembre, e un periodo peggiore, per essere tristi, di quello
in cui l’autunno si sfalda poco prima dell’inverno, le foglie marciscono e la
terra, umida, esala un freddo profondo, che pare intriso di morte.
Eppure fu proprio a novembre, l’11, che mio padre Leopoldo e io ci
risolvemmo infine a traslocare, una volta per tutte e in modo definitivo,
lasciando la nostra vecchia vita parigina per approdare alla nostra nuova
residenza londinese. In realtà tutt’altro che nuova: ci trasferimmo infatti nello
stesso appartamento che mio padre aveva affittato per noi un anno prima,
durante la guerra, quando avevamo dovuto, per prudenza, lasciare la nostra
casa di Parigi.
Ancora oggi, ripensando a questo piccolo dettaglio, mi commuovo:
Leopoldo aveva deciso, con la disperata testardaggine di un fanciullo, di
lasciare Parigi, perché quella città significava per lui Geneviève, l’adorata
moglie che aveva perduto. Al momento di scegliere per noi un’abitazione
londinese, tuttavia, il signor Adler aveva deciso per quella casa di Aldford
Street che ancora recava, nei colori aggraziati delle tappezzerie e in diversi
dettagli degli arredi, il segno lasciato dalla donna che aveva amato per tutta la
vita. Quanta tenerezza in quel contrasto tra le ferme risoluzioni della volontà
e le disperate esitazioni del cuore!
Geneviève. Quel nome continuava ad affiorare sulle mie labbra, come un
enigma irrisolvibile, nelle lunghe ore che, in quei giorni lontani, passavo in
solitudine.
Geneviève, la mia madre adottiva, che non avevo mai fino in fondo
compreso, che non aveva mai fino in fondo compreso me, e che pure non
aveva esitato ad andare incontro alla morte per salvarmi la vita. A conferma
di quanto poco siamo capaci di penetrare il mistero che abita l’animo delle
persone, anche quelle che ci vivono accanto. E così ora mi trovavo a dover
convivere con quel ricordo simile a un incubo: Geneviève che si frapponeva
coraggiosamente tra me e un sordido criminale, pagando con la vita la mia
avventatezza.
Non potevo infatti fare a meno di pensare che se quel ladro era entrato in
casa, più che per la guerra civile, più che per la povertà che prostrava la
capitale francese dopo la sconfitta subita dai prussiani, era stato per colpa
mia. Mia e del mio orrore per la noia, che condividevo con i miei grandi
amici, Sherlock Holmes e Arsène Lupin, e che ci spingeva immancabilmente
alla ricerca del brivido di un’avventura. Ed ecco che infine avevo appreso il
prezzo che si paga, in lacrime, quando si sceglie di seguire la propria
passione per l’avventura, anzi, per meglio dire, per la bruciante bellezza del
pericolo. Oggi posso affermare con certezza che non si trattava di capricci,
ma della mia natura più profonda che iniziava a mostrarsi, a me per prima. E
tuttavia, in quei giorni non sentivo che una pesante ombra era venuta a
posarsi sulla straordinaria vita che, da qualche mese, i miei amici e io
stavamo conducendo. Una vita che io avevo invece, fino a quel momento,
sempre pensato come illuminata dalla stessa luce che inondava le bianche
spiagge di St. Malo, il luogo nel quale ci eravamo incontrati e avevamo
giurato di rimanere sempre amici.
E così, quando tornammo in quella casa londinese, così sospesa tra il
passato e il presente, e il signor Orazio Nelson, il nostro maggiordomo, ne
spalancò le finestre, fu come se l’avessimo lasciata da pochi giorni. Perché
davvero vi aleggiava ancora il ricordo di mia madre. Di mia madre, sì, perché
in fin dei conti era stata lei a esserlo per davvero durante tutta la mia vita,
giorno dopo giorno, e di certo più di quanto non lo fosse stata la mia vera
madre, Alexandra Sophie von Klemnitz. Sophie mi aveva dato la vita.
Geneviève mi aveva protetto dalla morte. Eppure entrambe, in quel
novembre, mi parevano sepolte sotto una coltre impenetrabile. Ed ero sicura,
povera ingenua, che lì sarebbero restate.
Eppure avrei dovuto capire che non sarebbe stato così già dai primi passi
in quei corridoi elegantemente arredati, sotto i lampadari veneziani, tra i
divani trapuntati in puro stile Sheraton, sui tappeti che un qualche mercante
turco, o armeno, aveva portato in nave fino ai Docks di Londra; era forse uno
strano pensiero, ma mi sembrava che la nostra casa londinese avesse dentro
di sé qualcosa di entrambe quelle donne: il sofferente passaggio di una e la
totale assenza dell’altra.
O, più semplicemente, la realtà era che nonostante tutti i miei sforzi, la mia
nuova pettinatura (i capelli rossi tagliati cortissimi, quasi come quelli di un
ragazzo), le mie risoluzioni e le parole di papà, mi sarebbe stato del tutto
impossibile buttarmi alle spalle il mio passato e ricominciare come se nulla
fosse accaduto. Anche i miei sogni sembravano volermi dire la stessa cosa.
Ricordo infatti ciò che sognai la notte del nostro arrivo a Londra: passeggiavo
nella campagna leggendo un libro e, prima di essere giunta a leggerne il
finale, passando su uno stretto ponte di pietra il volume mi cadeva in un
canale. Nel sogno io continuavo a passare sul quel ponticello e mi sporgevo
per guardare il libro, che, aperto, rimaneva sul fondo, senza che l’acqua lo
disfacesse né la corrente lo trascinasse via, desiderando disperatamente di
poterne ancora leggere le parole stemperate dall’acqua. Al mio risveglio non
potei fare a meno di pensare che quel libro altro non fosse che la storia mia e
di Geneviève, sfuggitami per sempre dalle mani.
Era così che mi sentivo. E cercavo di non darlo a vedere. Sapevo che mio
padre soffriva quanto me, anzi, forse molto di più, perché lui Geneviève
l’aveva amata più di quanto non avessi mai fatto io. E mi avevano adottato
anche in nome del loro amore. Papà sapeva che mia madre aveva i polmoni
delicati, e che l’aria fumosa di Londra aveva peggiorato la sua salute. Ma non
aveva mai pensato che potesse morire così, all’improvviso, e in circostanze
tanto violente. Aveva incassato il colpo cercando di riservarmi la stessa
tenerezza che io riservavo a lui: facendomi credere di esserci riuscito, e che
tutto sommato le cose potevano ancora riprendersi, e si sarebbero riprese, di
certo non quell’inverno (il solo pensiero del prossimo Natale era per entrambi
insopportabile) ma forse, passabilmente, con la primavera successiva. Non so
quali dei suoi affari avesse chiuso, quali fabbriche di ferro venduto, quali
linee ferroviarie abbandonato al loro destino pur di poter cambiare vita e
tagliare con il suo passato, né me lo disse mai. Ma io lo vedevo prostrato, lo
spiavo quando lui credeva di non essere visto, e piangeva, o rimaneva come
incantato, con la schiuma da barba già distesa sul viso, a fissarsi nello
specchio, come se, all’improvviso, gli riuscisse impossibile credere che
Geneviève non fosse accanto a lui. Eravamo entrambi la stampella dell’altro.
Ma era come se a sostenersi in mezzo a quelle due stampelle ci fosse stato un
fantasma.
Come dicevo, si sarebbe detto che il vituperato clima londinese
comprendesse il nostro stato d’animo e si prodigasse per darci un po’ di
conforto con insoliti, limpidi giorni di sole e vento teso, in cui piccole nuvole
bianche e innocue fuggivano veloci sul sipario azzurro del cielo. Restavo a
lungo affacciata alla finestra a contemplare le vie fangose che si riempivano
di venditori e di carrozze, gli alberi del parco sullo sfondo da un lato, le
facciate bianche delle case della via dall’altro. Una volta mi capitò di notare
un gruppetto di spazzacamini camminare in equilibrio sui tetti del palazzo di
fronte al mio, e lanciai un grido di sorpresa. Loro mi videro, mi salutarono e
si esibirono per me in una serie di spericolate acrobazie.– No! No! Per carità! – strillai io, preoccupata che si potessero far del
male, o che all’improvviso precipitassero nella strada.
Ma loro risero, sollevarono le lunghe scope nere e mi tesero un cappello.
Io feci loro segno di aspettarmi, mi precipitai in casa a caccia di uno scellino
e, quando lo trovai, glielo lanciai. E non appena un ragazzino dal volto scuro
e gli occhi brillanti lo acchiappò mi sentii meglio.
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