Sherlock, Lupin & Io – Un ultimo ballo, Mr Holmes – Irene Adler

SINTESI DEL LIBRO:
Avessi le o quelle poche pagine prima di trovarle, forse ora potrei
raccontare una storia diversa. Ma purtroppo per me, e magari anche
per voi, non andò così, e tu o ciò che posso fare è ripercorrere gli
eventi che ci portarono al ballo così come sono accaduti, uno dopo
l’altro. Dalle premesse al loro tragico epilogo.
Infuriavano gli anni Venti, ruggenti perché scanditi dai colpi di tosse
dei motori a scoppio, e l’atrio del Club Diogenes era silenzioso come
un mausoleo di quelle antiche famiglie di cui nessuno si ricorda più
il nome. Sherlock era seduto al suo solito posto, l’angolo della bocca
sollevato, che accentuava le rughe del suo sarcasmo. Non c’era niente
da fare e, nonostante tu i quegli anni, non si era ancora abituato alle
manie di suo fratello. Compreso per l’appunto il Club Diogenes. Era
un tempio del silenzio e della comodità, dove facoltosi snob
londinesi andavano a leggere il giornale o a consumare un pasto in
solitudine. Lo statuto, che una schia a di soli uomini aveva
faticosamente reda o e so oscri o, proibiva che i suoi membri si
rivolgessero la parola tra loro, e quindi, come una volta mi aveva
de o Irene, perché non se ne stavano tu i semplicemente a casa? I
motivi erano due. Secondo Irene, le donne. Ovvero, a casa c’era il
rischio di incontrare almeno una donna, di essere interro i o – orrore– addiri ura interpellati su questioni di poco conto per quelle teste
così eccelse, tipo cosa mangiare a pranzo, come risolvere le perdite
del te o, chi avrebbe pagato i giardinieri. Secondo Sherlock, la cui
vena misantropa era costantemente messa all’erta proprio da mia
madre, il motivo era tu ’altro, e ne aveva la prova da quando suo
fratello Mycroft era diventato uno dei soci fondatori del club:
prestigio sociale. Null’altro che una questione di prestigio sociale. I
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membri del Club Diogenes si vestivano, uscivano per strada e si
recavano a stare zi i nell’elegante edificio di Pall Mall solo per
ostentare la propria posizione. Come dire che il silenzio è d’oro, ma
lì
era più d’oro che da altre parti. E se quella o uagenaria e
pachidermica eminenza grigia di Mycroft Holmes era disposta a fare
quello sforzo era esclusivamente per via del fa o che abitava proprio
di fronte al club.
«Che colossale spreco di energie per un uomo tanto pigro»
bofonchiò Sherlock, nell’atrio del club.
«Come dite, signore?» gli chiese Finley, l’usciere.
Sherlock lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. O non
avesse davvero preso in considerazione la possibilità che sapesse
parlare.
«Niente di importante, Finley» gli rispose.
«Vostro fratello vi aspe a nella sua stanza privata. Venite, vi
faccio strada.»
Sherlock non mutò espressione. S’incamminò con le mani
allacciate dietro la schiena, rifle endo su quanto fosse inusuale che
Mycroft lo volesse amme ere nei suoi spazi personali. Di solito si
vedevano nella sala degli ospiti del club, l’unica del Diogenes in cui
fosse permesso fare conversazione. Farlo entrare nella stanza privata
era come se suo fratello gli stesse consegnando uno dei fascicoli dei
servizi segreti per cui lavorava. E forse, dopotu o, era davvero così.
Seguì Finley fino a un certo corridoio, pannellato di legno e decorato
con trascurabili quadri di caccia alla volpe, fino all’ultima porta,
quando sentì la gamba destra cedergli e dove e fermarsi un istante.
«Tu o bene, signore?» gli domandò l’usciere.
«Tu o bene, solo una recente fra ura in via di calcificazione e
delle ossa purtroppo non più giovani come dovrebbero» rispose
Sherlock, seccato, scuotendo una mano come per cacciare un inse o
fastidioso.
Finley non commentò: la sua formazione gli aveva reso del tu o
invisibili gli acciacchi, le imprecazioni e le stramberie degli iscri i al
club. Gli aprì la porta e si fece da parte, dileguandosi come fumo.
All’interno c’erano una tavola imbandita per due persone, una
candida tovaglia di fiandra e la straripante mole di suo fratello
Mycroft.
«Credevo che il do ore ti avesse raccomandato di restartene in
campagna» disse Sherlock, sventolandogli la busta blu che
conteneva la sua convocazione.
«Per mia fortuna un fa o della massima urgenza mi ha permesso
di ignorare le prescrizioni di quel pomposo cialtrone in stetoscopio»
rispose Mycroft, picchie andosi i lati della bocca con il tovagliolo.
«Ti chiedo scusa se non ti ho aspe ato.»
«Tu e le sue prescrizioni, nessuna esclusa, a quanto vedo» disse
Sherlock, cercando una sedia.
Mycroft gli restituì uno sguardo di pietra e provò inutilmente a
nascondere con il tovagliolo gli ossi di agnello appena spolpato e i
brandelli imburrati di uno Yorkshire pudding che galleggiavano nel
suo pia o.
Sherlock alzò subito le mani in un gesto di resa. «Ma d’altro canto
sono dell’idea che ognuno debba vivere la vita secondo le proprie
regole. E i do ori sono dei lugubri seccatori, in effe i.»
«Sherlock Holmes, investigatore e filosofo» replicò Mycroft, con
una secca risata. «Ma concordo con te, fratello caro. Anche perché,
date le nostre regole di vita, siamo comunque arrivati a un’età
ragguardevole, su cui nessuno di quegli uccellacci del malaugurio
avrebbe scommesso un penny, dico bene?»
«Dico che non vedo il mio coltello» rispose Sherlock. «Allora: di
cosa si tra a?»
«Di una vera opportunità, fratello: Protheroe, il nuovo cuoco del
Diogenes, è gallese e i suoi coscio i d’agnello arrivano da un
villaggio dal nome impronunciabile… ancora più piccolo di Hay-on
Wye.»
Sherlock rise. «Condo o nell’Ade da un grasso coscio o di
agnello delle verdeggianti campagne gallesi. Un epitaffio che ti si
addice appieno.»
«Ne convengo. Anzi, ti spiace se me lo annoto?»
«E a te spiace se lo assaggio?» disse Sherlock.
Mycroft sorrise, compiaciuto. «Come se fosse una buona
domenica in famiglia.»
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«Tranne che non è affa o domenica.»
«Quando è che sme i di fare l’investigatore?»
«E tu il misterioso?» Sherlock addentò il suo primo boccone:
morbido, eccellente, perfe amente speziato. «Protheroe a parte, c’è
un motivo per cui hai sprecato il tempo del nostro regale servizio
postale?»
Mycroft lo guardò per un a imo in silenzio, con la testa
imperce ibilmente inclinata di lato, poi disse: «La ragione per cui ti
ho mandato a chiamare è davvero una questione della massima
importanza. Hai mai sentito parlare di Adam L. Hawke?».
Il tempo di alcuni secondi e poi: «Il magnate americano che ha
deciso di investire nel se ore siderurgico della nostra piccola isola?
Ho le o qualcosa sui giornali».
«Lui. E credimi se ti dico che quello che si legge sui giornali è solo
la punta dell’iceberg. Forse saprai anche che ha appena acquistato
Tavistock Manor, un’antica dimora di Chiddingstone, nel Kent.»
«Non mi interesso di pe egolezzi dell’alta società, a meno che…»
«Esa o. Appena ha messo piede in Inghilterra…»
«Ha ricevuto delle minacce.»
I due fratelli si guardarono soddisfa i. Nonostante divergessero
praticamente su ogni cosa, i loro pensieri viaggiavano alla stessa,
folle, velocità. Sherlock aveva sempre dichiarato senza imbarazzo di
ritenere Mycroft più intelligente di lui, al punto che sarebbe stato un
detective invincibile se solo si fosse degnato di alzare le sue
poderose terga dalla poltrona. E Mycroft, dal canto suo, aveva
sempre sostenuto che Sherlock sarebbe stato un o imo servitore
della Corona, se avesse avuto anche solo un pizzico di inclinazione
per servire qualcuno che non fosse se stesso. A mia conoscenza c’era
stata un’unica parentesi, nel loro travagliato rapporto, in cui avevano
entrambi contravvenuto alla loro essenza, e cioè il primo si era quasi
messo in a ività e il secondo quasi al servizio dell’Inghilterra
durante i famosi anni in cui si pensava che Sherlock fosse morto alle
cascate di Reichenbach. Una parentesi che suppongo si consumò
interamente da qualche parte tra i versanti svizzero e francese delle
Alpi di cui, però, nessuno dei due aveva mai parlato; questi
avvenimenti erano rigorosamente sigillati nelle loro memorie.
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«Saresti così cortese da prendermi quel portadocumenti
appoggiato sul tavolino?» disse Mycroft, indicando il vicino
salo ino.
«È talmente urgente da non perme ermi di terminare?»
«Affa o. Non mi ricordo di averti visto mangiare con tanto
piacere.»
«Sto semplicemente informandomi in anticipo su una delle
possibili cause di decesso di mio fratello.»
«Siamo proprio due vecchi che parlano più dei morti che dei vivi»
fece Mycroft, divertito. «Sei poi andato dal do ore per quei dolori?»
Sherlock finì e si pulì le labbra con il tovagliolo. «Grazie
dell’indicazione, a proposito. Mi ha ordinato di non camminare. E,
come vedi…» Si alzò per raggiungere il tavolino e il portadocumenti.
«Seguo le tue stesse regole di famiglia.»
Quell’accenno di complicità piacque molto a Mycroft, che aprì la
cartelle a e gli mostrò quanto conteneva. Due verbali della polizia di
Southampton, uno riguardante la manomissione di un mozzo della
ruota della sua Rolls-Royce, e l’altro che riportava l’esplosione di un
colpo di rivoltella fra la folla, per mano di ignoti, il giorno
dell’arrivo.
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