Sherlock, Lupin & Io – Le ombre della Senna – Irene Adler

SINTESI DEL LIBRO:
Non mi sarei mai aspettata che a quel funerale potesse esserci così tanta
gente. Mentre mi avvicinavo in carrozza alla cattedrale di Notre-Dame, nel
centro di Parigi, mi ero immaginata una chiesa deserta, popolata di echi e del
rumore della pioggia sulle vetrate. Mi ero vestita di scuro, in abbinato al mio
umore e ai miei pensieri, e avevo seguito il signor Nelson fuori dalla nostra
casa di campagna.
«Che cosa ne pensate, signorina Irene?» aveva domandato il mio fidato
maggiordomo, sedendosi accanto a me con un sospiro scricchiolante della
carrozza.
L’avevo guardato. Che cosa potevo pensare? Che il signor Jean-Jacques
François d’Aurevilly, l’unico amico della mia vera madre, era morto. Era
molto più vecchio di lei, è vero, e già molto malato, ma la notizia non solo mi
rattristava: mi incupiva, quasi mi insospettiva, dato il susseguirsi di notizie
inattendibili e di avvenimenti sorprendenti che mi avevano bombardato negli
ultimi mesi.
«Penso che sia morto, Orazio. Niente altro che questo» gli avevo risposto,
un filo seccata da quella domanda così diretta. Non era da lui, mi ero detta. E
avevo pregato, tra me e me, che anche il signor Nelson non stesse cambiando.
E che non fosse sul punto di farmi nuove, incredibili rivelazioni.
Non era il momento. Tutto qui.
E non era nemmeno il momento di ridere, avevo pensato, quando il signor
Nelson, invece, si era lasciato andare a una potente risata, tanto da farmi
voltare verso di lui e domandare: «Ma insomma, cosa sta succedendo?».
Lui, il buon maggiordomo che negli ultimi anni aveva vegliato su di me
senza mai essere indiscreto, e che, ormai ne ero sicura, sapeva delle mie
scappatelle con i miei amici e delle nostre avventure investigative più di
quanto mi avesse mai confessato, si era limitato a sorridere. Si era passato le
mani sui pantaloni di velluto, appena un poco più scuri della sua pelle, e con
un sorriso smagliante mi aveva risposto: «Immagino quindi che vostra madre
non vi abbia parlato…».
Bel modo di dire, avevo pensato.
«Mia madre… quale?» gli avevo domandato. Perché negli ultimi mesi
avevo ormai avuto la prova che la persona che avevo sempre chiamato
mamma, la signora Geneviève Adler, altro non fosse che una madre in
prestito, e io, per lei, una figlia adottiva. E che conseguentemente anche
l’uomo che avevo sempre adorato e chiamato papà, Leopoldo, non fosse altro
che un sostituto del mio vero padre.
Mia mamma, quella vera, si chiamava Sophie ed era una contessa boema,
come boemo era stato mio padre. Dopo la morte di lui, lei mi aveva affidato
ai signori Adler per proteggermi, in modo che gli oscuri cospiratori che la
cercavano per ucciderla non potessero fare altrettanto con me. Le era costato
moltissimo, mi aveva detto. Le avevo creduto, ma in fondo ai miei pensieri
era sempre rimasta una scaglia dolorosa, una domanda senza risposta, un
pensiero fisso. Come può una mamma abbandonare sua figlia?
Le risposte che mi ero data erano moltissime: la guerra, i re, gli imperi, il
rotolare del mondo nell’immensa solitudine dello spazio. Risposte sempre più
grandi, e dunque vuote, desolanti, sconsolate.
Piene di echi, come quelli che mi aspettavo di trovare nella chiesa di
Notre-Dame.
«Non ci siamo parlate, no» avevo mormorato al signor Nelson, guardando
fuori dal finestrino della carrozza. Non c’era la solita nebbia umida che in
quella stagione inghirlandava gli alberi della campagna, imprigionando nel
suo tessuto fragile luci, suoni e colori. Splendeva anzi un bel sole chiaro, che
contrastava con tutto il mio arrovellarmi.
«E dunque nemmeno con vostro padre Leopoldo…» aveva continuato il
signor Nelson, implacabile.
«Non lo vedo da giorni» avevo ribattuto. «Ma si può sapere cosa
avrebbero dovuto dirmi? O non mi resta che scoprirlo da sola… e quando?»
Nelson aveva annuito gravemente, mantenendo però in volto il suo sorriso
enigmatico.
«Vorresti dunque aiutarmi, Orazio, dato che sei insolitamente allegro e
questo mi rende ancora più curiosa?» insistetti.
«Solo se mi promettete di fingervi stupita, quando il funerale sarà
terminato.»
«Hai in programma una risurrezione?» avevo scherzato, sottolineando, con
una certa soddisfazione, la mia azzardata provocazione. Se il signor Nelson
non si atteneva alla parte del perfetto maggiordomo, perché mai io dovevo
insistere a voler essere una perfetta gentildonna?
«Signorina Irene!» mi aveva puntualmente rimproverato lui. «Non è di
questo che stiamo parlando!»
«Ma è sempre a un funerale che stiamo andando! O forse mi hai rapita, per
condurmi in Africa, al cospetto del mio vero padre?»
«E perché mai, in Africa?»
«Così, tanto per dire. Se devo muovermi nel buio delle tue allusioni, tanto
vale farlo con stile, non credi?»
«Avete ragione, signorina Irene. Sono stato indelicato. Ma la notizia mi ha
davvero rallegrato, e così credo sarà per voi. Stiamo andando a un funerale,
sì, e di una persona che in qualche modo ci è cara… ma soprattutto stiamo
andando a Parigi, e a Parigi…»
Il signor Nelson aveva lasciato la frase sospesa, come faceva, a casa, con
le tende dietro le quali annunciava questo o quell’altro ospite. Lo avevo
guardato, sospettosa. Mi era balenata subito un’idea, ma l’avevo altrettanto
subitaneamente accantonata. Non era possibile che, data la guerra appena
conclusa e gli eserciti di disertori che avevano preso il controllo di Parigi, e
tutti gli innumerevoli pericoli di cui mia madre, quella adottiva, e mio padre
non facevano altro che parlare… non era possibile, mi ero detta, che i signori
Adler avessero finalmente deciso di lasciare quella desolata casa in
campagna, a Evreux, in mezzo alla nebbia e alle pecore, per tornare in città,
nel nostro meraviglioso appartamento all’ultimo piano di Rue du Bac.
Eppure lo sguardo di Orazio mi cullava, durante tutti questi pensieri e
ripensamenti, come per incoraggiarmi a crederci un po’ di più.
Avevo sollevato un sopracciglio, come il mio amico Lupin mi invitava
talvolta a fare (lo trovava irresistibile), e gli avevo infine domandato,
aspettando che la carrozza smettesse di sobbalzare: «Non mi dire che stiamo
tornando tutti a Parigi…».
Il signor Nelson aveva rafforzato il suo sorriso. «Voi l’avete detto,
signorina Irene. E io credo che sia precisamente questa l’intenzione di vostro
padre.»
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