Sherlock, Lupin & Io – Il castello di ghiaccio – Irene Adler

SINTESI DEL LIBRO:
Il treno si fermò nel bel mezzo della vallata. Fuori dal finestrino i boschi di
abeti, adagiati sui pendii delle montagne, si lasciavano accarezzare dal sole
del pomeriggio. Tutto sembrava immobile e sereno, come in una veduta
appesa nel salotto di una vecchia nobildonna.
Il contrasto tra quel paesaggio e il mio stato d’animo mi strappò dalle
labbra un breve sospiro. Dovevamo essere fermi già da un po’, ma io me ne
accorsi solo in quel momento, come risvegliata da alcune voci che ora
risuonavano nella valle.– Una mucca sui binari… o un altro piccolo incidente del genere – spiegò
Orazio Nelson, il nostro fidato maggiordomo, con un sorriso appena
abbozzato. – Sono certo che tra poco ripartiremo.
Guardai fuori dal finestrino ma non vidi mandrie al pascolo. Mi sembrò
invece di scorgere qualcosa, nulla più che una sfuggente ombra nel verde
brillante del prato, che subito scomparve tra gli abeti. Io, distratta da mille
altri pensieri, non vi feci caso. Ci sarebbero voluti giorni perché mi rendessi
conto che quell’insignificante episodio era stato, in realtà, il primo segno di
un grande mistero. Il più fitto e intricato nel quale mi fossi mai imbattuta.
In quel frangente, tuttavia, non ne avevo il minimo sospetto e non feci
altro che annuire, accennando a mia volta un pallido sorriso alla volta di
Orazio.
Riflettei invece su quanto fosse cambiato il comportamento del signor
Nelson nei miei confronti, in quelle ultime settimane. Era come se egli avesse
fatto diversi passi indietro, ritornando alla discreta cortesia che mi aveva
sempre riservato fino a qualche mese prima. Era quello il suo modo di farmi
capire che comprendeva il tumulto che era scoppiato nel mio animo e che
intendeva, per quanto era in suo potere, lasciarmi in pace.
Ma l’idea stessa della pace era per me in quei giorni qualcosa di
estremamente distante, di inafferrabile. Come potrebbe infatti trovare pace
chi ha appena visto la sua vita messa sottosopra dal destino, e tutto ciò che
sembrava sicuro improvvisamente sgretolato fra le sue dita?
Era accaduto tutto poche settimane prima, mentre mi trovavo a Parigi: ero
appena uscita da un’oscura vicenda in cui io e i miei grandi amici Sherlock e
Arsène ci eravamo trovati coinvolti, non senza grandi pericoli, quando il
destino aveva deciso di imporre una brusca svolta alla mia vita. Una signora
dal volto aggraziato e dagli occhi profondi, che in più occasioni mi era
capitato di incontrare in passato, ma sempre in modo sfuggente e un po’
misterioso, si era questa volta seduta a parlare con me e mi ha aveva
finalmente svelato il suo (il nostro!) segreto: il suo nome era Alexandra
Sophie von Klemnitz ed era la mia vera madre.
Molte volte, nel corso del tempo, ho cercato di ripensare alle ore seguite a
quella rivelazione, sperando di comprendere, almeno nel ricordo, quali
sentimenti io avessi provato. Ma ogni volta che la memoria cerca di
riafferrare quei momenti tutto si fa sfocato e non posso fare a meno di venire
di nuovo sopraffatta dalla stessa rapsodia confusa di impressioni e stati
d’animo. Ricordo per esempio di avere provato la sensazione di trovarmi in
uno strano sogno, in cui nulla di ciò che mi stava accadendo era reale. E
ricordo anche di avere a lungo pensato ai miei sentimenti per il signore e la
signora Adler: per quanto volessi loro bene, specie a mio padre, non avevo
forse sempre avvertito un inspiegabile senso di estraneità? Era così. Ma quale
sgomento aveva provocato in me venire a sapere che non si trattava
dell’impalpabile pensiero di una fanciulla dall’animo inquieto, ma di
qualcosa che aveva tutto il peso e la durezza della realtà!
E poi ricordo ancora certi pensieri che cercavo di tenere lontani, ma che
tornavano in continuazione a colpirmi, come tante stilettate: per quale ragione
quella donna dall’aspetto così gentile mi aveva abbandonata, accettando di
separarsi da me, sua figlia? Come avevano potuto i signori Adler vivere così
a lungo coltivando quella menzogna? Come avevano potuto, giorno dopo
giorno, prestarsi con tanta dedizione a quella messinscena? E soprattutto: chi
ero io, veramente? Chi erano mio padre e la mia famiglia?
È forse proprio questo il sentimento che ricordo con maggiore nitidezza:
l’intransigenza della ragazza che ero a quel tempo, desiderosa di ottenere
tutte le risposte, subito, in modo da porre fine all’insopportabile carosello di
menzogne che mi sembrava essere divenuta la mia vita. E sono queste, anche,
le memorie per me oggi più dolorose. Perché l’odio e il disprezzo che
sgorgarono in quei giorni dal mio animo ferito non risparmiarono nemmeno
chi, come il signor Leopoldo Adler, non meritava in realtà alcun biasimo,
avendo anzi preso ogni sua decisione guidato da innata bontà d’animo.
Ma il cuore di una ragazza è impetuoso e considera inganni o vili scuse
tutto ciò che non serve a placare la sua sete di verità.
Con una simile tempesta nell’animo stavo viaggiando tra i maestosi profili
delle Alpi svizzere, diretta a Davos, dove avrei incontrato proprio Alexandra
Sophie von Klemnitz, la sconosciuta che dovevo sforzarmi di imparare a
chiamare “madre”.
Quell’incontro era stato, ovviamente, deciso di comune accordo con i
signori Adler. I miei genitori adottivi avevano infatti perseverato, nonostante
la mia insistenza sempre più veemente, nel non darmi alcun chiarimento sulle
circostanze della mia adozione. «Sono spiegazioni che una madre ha il diritto,
e anzi il dovere, di dare a sua figlia guardandola negli occhi» mi aveva detto
la signora Adler, tendendo i muscoli del viso per trattenere le lacrime.
«Dovrai quindi attendere di poter parlare con la signora von Klemnitz.»
Quel momento si faceva ora sempre più vicino e quando mi sporsi fuori
dal finestrino riconobbi un elegante e maestoso edificio sul dorso della
montagna. Lo avevo visto su di una cartolina illustrata giunta pochi giorni
prima a casa nostra: era l’Hotel Belvédère, l’albergo nel quale la signora von
Klemnitz, mia madre, mi avrebbe raggiunto. Il treno si rimise lentamente in
moto e la locomotiva lanciò in aria il suo acuto fischio che tuttavia, a
differenza di quanto era sempre accaduto fin da quando ero una bambina, non
mi diede nessuna allegria.
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