Sherlock, Lupin & Io- Il mistero della rosa scarlatta – Irene Adler

SINTESI DEL LIBRO:
Se ripenso a quel lontano pomeriggio di dicembre del 1870, mi torna in
mente un’immagine ben precisa: una lenta danza di minuscoli fiocchi bianchi
che riempie la finestra dello studio di papà. Era la mia prima nevicata
londinese.
Papà si trovava a Glasgow per uno dei suoi viaggi d’affari e, con la
generosità che lo contraddistingueva, mi aveva consentito di usare il suo
piccolo ma accogliente studio dalle pareti coperte di libri.
Non lontano da me, in un piccolo camino di marmo bianco, ardeva un
vivace fuoco scoppiettante. Orazio Nelson, il nostro fedele maggiordomo, si
avvicinò discretamente alla porta che avevo lasciato socchiusa e indicò la
finestra con un lieve cenno del capo.– Guardate, signorina Adler...
Non appena mi voltai, la vista di tutto quel candore mi sorprese,
stringendomi il cuore.
– Nevica! Nevica! – esclamai senza neppure pensarci, come una bambina
(o forse sarebbe più giusto dire che, in quell’istante, a parlare fu la bambina
che a quel tempo viveva ancora dentro di me).
Di lì a poco, richiamata dallo scoppio della mia voce, arrivò anche mia
madre. Orazio si fece da parte con un inchino e si allontanò.
Vidi allora la mamma guardare verso la finestra e illuminarsi di un
semplice sorriso. Anche lei, dopotutto, aveva un cuore da bambina.– Oh, Irene... Non è bellissimo? – mi domandò.– Bello come in una favola – le risposi.
Mia madre gettò un’occhiata ai molti volumi che ingombravano la
scrivania di papà e, nello scorgerli, sembrò quasi compatirmi.– Ti lascio studiare, mia cara! – mi sorrise. – A dopo.
Anche io sorrisi, pensando che il suo ottimo umore aveva in realtà un
significato ben preciso: dopo un autunno di sospiri, musi lunghi e
melanconici riferimenti a Parigi, la città dalla quale eravamo dovuti scappare
precipitosamente per via della guerra contro la Prussia, Londra aveva
finalmente conquistato il suo cuore.
L’eleganza austera degli edifici, le compassate abitudini della buona
società londinese e la raffinata fattura degli oggetti venduti negli empori di
lusso dai quali la mamma si forniva per arredare il nostro nuovo
appartamento di Aldford Street avevano, giorno dopo giorno, fatto breccia
nel suo animo. Quando poi, tramite gli amici di papà, ci raggiunse la notizia
che, come noi, diverse altre dame della buona società parigina si erano
spostate nella capitale britannica per allontanarsi dai pericoli della guerra, il
cambiamento nella mamma si era completato. Non si sentiva più sola. E così
anch’io.
Ad aiutarci a sentirci a casa in quella città straniera era poi bastata
l’atmosfera del Natale, alla quale sia io che mia madre eravamo sempre state
sensibili. Ed erano quindi, quelli, giorni molto allegri, che trascorrevo
felicemente insieme a lei, come raramente era successo prima.
Questo non significa che non serbassi con lei dei segreti. Al contrario.
Anche in quel momento, per esempio, non stavo affatto studiando come lei
aveva pensato. Avevo invece appena finito di scrivere una pagina del diario
che da alcuni mesi avevo cominciato a tenere. Un diario segreto, un bel
volume rilegato in cuoio marocchino al quale avevo già consegnato molte
delle parole che, in questi giorni, mi aiutano nella stesura delle mie memorie
d’infanzia. Ma non ho certo bisogno di consultare le sue pagine ormai
ingiallite per ricordarmi che cosa avessi scritto quel pomeriggio. Avevo
scritto dei miei due inimitabili amici: Sherlock Holmes e Arsène Lupin. Il
primo era divenuto ormai una frequentazione abituale da quando mi ero
trasferita a Londra, mentre il secondo si trovava da qualche parte in giro per il
mondo, insieme al circo del padre. La sua ultima cartolina risaliva a un mese
prima, ed era stata spedita da Anversa. Quando l’avevo ricevuta, passatami di
nascosto da Orazio, l’avevo letta nella mia camera, con le labbra che quasi
bruciavano.
Sospirai, mentre i miei occhi restavano incollati alla finestra e alla delicata
danza dei fiocchi di neve. Sapevo di essere una ragazza molto fortunata, e
non perché mio padre aveva saputo allontanarci della guerra permettendoci di
mantenere il nostro tenore di vita, ma perché già allora, quando la fama non
aveva ancora neppure sfiorato il mio amico, mi rendevo conto di quale
privilegio fosse potere passare del tempo con Sherlock Holmes ed essere
testimone dell’irrequieta e dirompente grandezza della sua mente. Ma Lupin
mi mancava, a volte, con la sua semplicità disarmante, la sua audacia, la sua
capacità di far sembrare innocue anche le imprese più pericolose, salvo poi
raccontarle in modo così esagerato che io stessa faticavo a riconoscermi come
una delle protagoniste. Mi mancava quell’alchimia che si creava quando noi
tre ci ritrovavamo insieme, mi mancavano le battute e le confidenze, i gesti
audaci e scriteriati, e quel senso di onnipotenza nei confronti del mondo
circostante che mi rassicurava di fronte a ogni pericolo. Ecco qual era il
potere della nostra giovane età, e della nostra amicizia.
Quando staccai finalmente gli occhi dalla finestra mi affrettai a guardare la
pendola all’angolo dello studio. Mancavano pochi minuti alle tre. Era
mercoledì, e in quel giorno della settimana, come anche il venerdì, i miei
pomeriggi londinesi erano scanditi sempre allo stesso modo: alle quattro in
punto sarei scesa in strada, dove Orazio e una carrozza mi avrebbero attesa
per condurmi in Carnaby Street, alla Shackleton Coffee House. Era quello un
altro dei piccoli segreti che condividevo con il nostro maggiordomo. Per i
miei genitori io mi sarei recata a casa della signorina Langtry, la mia nuova
insegnante di canto, ma la verità era che ci sarei andata soltanto un’ora più
tardi, dopo avere passato un po’ di tempo in compagnia di Sherlock Holmes,
in quel caffè così poco adatto a una fanciulla di buona famiglia. Ma poiché il
signor Nelson era incaricato di trattare le prenotazioni e i pagamenti con la
signorina Langtry, non era difficile barare sulle ore di lezione e guadagnare
quel piccolo momento segreto da passare in compagnia del mio affascinante
amico.
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