Schegge di ricordi – Monica Lombardi

SINTESI DEL LIBRO:
«Giulia.»
La voce uscì roca, poco più di un sussurro. Non era sicura di
essere riuscita a farsi sentire.
Livia cercò di aprire gli occhi ma le palpebre erano pesanti
come se qualcuno le avesse incollate. E il braccio le bruciava.
Cos’era successo? Avevano avuto un incidente?
Forse era un brutto sogno. Forse doveva solo aspettare di
svegliarsi.
Fu la sete a svegliarla di nuovo, e un sapore molto amaro in
bocca. Come un treno lanciato a tutta velocità, le arrivò addosso la
sensazione che fosse successo qualcosa di spaventoso, e il senso
di panico che la invase la destò del tutto.
Mentre cercava di aprire gli occhi, provò a muoversi. Senza
riuscirci. Le caviglie e i polsi erano bloccati.
Spalancò gli occhi, il corpo attraversato da un’invisibile scarica
di qualcosa che assomigliava alla corrente elettrica.
Sopra di lei un soffitto grigio, grezzo, che non riconosceva.
Attorno, pareti nude, nessuna finestra. Delle sbarre di metallo
segnavano la fine del letto su cui era sdraiata. A quelle sbarre era
fissata la corda spessa che le teneva fermi i piedi. La stessa corda
che strusciava contro la pelle dei polsi, ai lati della testa.
Un rumore lieve, poi un cigolio, proprio di fronte a lei. Un fascio
di luce sottile bucò la penombra: si fece largo, mentre il cigolio
continuava. Finché la luce non delineò una sagoma scura.
La figura avanzò verso di lei, vuoto contorno contro la luce che
l’abbagliava. Livia cercò di mettere a fuoco quell’enorme zona
d’ombra, puntando gli occhi là dove si aspettava di trovare un volto
umano.
Trovò solo un buco nero.
Fu allora che il silenzio fu squarciato da un urlo agghiacciante. Il
suo.
Aveva gridato. Mario non aveva mai sentito una donna gridare
così forte. Per un attimo aveva temuto che potesse perforargli i
timpani. Eppure, dopo il quasi doloroso impatto iniziale, quel grido si
era trasformato in qualcosa di diverso e gli era entrato dentro come
una potente scarica di energia.
Potere. Puro.
Nessuna donna aveva mai risposto così alla sua presenza. In
nessuna aveva mai scatenato una reazione simile.
Avere la vita e la morte di qualcuno tra le mani.
Non che lui avesse intenzione di ucciderla, non ora che l’aveva
appena trovata. Ma il terrore era lì, negli occhi di lei. Perché Livia,
così si chiamava, non poteva sapere che l’avrebbe risparmiata.
Quando aveva spalancato lo sportello dell’auto su cui le due
donne viaggiavano, lei l’aveva guardato. Nei suoi occhi Mario aveva
letto la paura ma anche la sfida: era stata pronta a fronteggiarlo. Ed
era stata quella sfida a mandargli una scossa dritto nei lombi: voleva
averla, doveva averla.
Mentre la tramortiva con il Taser, aveva deciso che, appena si
fosse svegliata, l’avrebbe avuta.
Così lasciò che l’urlo, amplificato dagli spessi muri del piccolo
locale, si esaurisse per mancanza di fiato, poi si avvicinò. Avrebbe
voluto che Livia potesse vedergli meglio gli occhi, che potesse
vedergli tutto il viso, imprimersi la sua faccia nella memoria. Eppure
sapeva che, anche con quel cappuccio nero che lo nascondeva al
suo sguardo, stava lasciando una traccia indelebile in lei.
Qualsiasi cosa fosse successa, Livia non l’avrebbe mai
dimenticato.
Le lacrime si erano asciugate sulle guance e ora la pelle le
tirava. Ne aveva versate troppe.
Non ne avrebbe versate più.
Un pensiero semplice, quasi banale. Ma per la prima volta sentì
pallidi aneliti di forza tornare a filtrare attraverso le crepe della sua
disperazione. Come un fragile contenitore che si era schiantato sul
fondo, crepandosi senza rompersi, anche Livia era arrivata alla fine
della sua caduta e ora stava prendendo coscienza del luogo in cui si
trovava, della situazione in cui era. Aveva visto il mostro, aveva
subìto il mostro.
Ed era sopravvissuta.
Fu in quel momento che cominciò a vedere qualcosa, oltre alla
cappa opprimente della propria angoscia. Respiro dopo respiro (e
quei respiri erano la prova che era ancora viva), costrinse la paura in
un angolo, mettendola da parte come un oggetto inutile. Come un
mantello ingombrante di cui un viaggiatore si libera per avere
maggior libertà nei movimenti.
I
pensieri, per la prima volta da quando si trovava lì, erano
lucidi, quasi distaccati. Le sue emozioni erano esplose insieme alle
grida che le avevano lasciato la gola bruciante, fluite via insieme alle
lacrime che l’avevano svuotata: ora la sua parte razionale stava
riprendendo il controllo.
Il
panico era nella caduta, nella scoperta di trovarsi in un
incubo.
Ora era arrivato il momento di pensare a come uscirne.
Qualcuno aveva acceso una sega elettrica.
No, il rumore era quello ma era meno roboante, più sottile. Una
sega elettrica in miniatura che, a giudicare dal dolore alla testa, gli
stava trapanando il cervello.
Poi Andrea ricordò. Giulia, il telefono… il telefono!
Spalancò gli occhi e la luce fu una lama dolorosa. Riabbassò le
palpebre e ruotò su un fianco, muovendo le mani alla ricerca del
cellulare.
Quando lo ebbe trovato riaprì gli occhi quel tanto che bastava a
individuare il tasto per rispondere. Esitò.
Potevano essere buone notizie, o cattive. Poteva essere la fine,
in un modo o nell’altro.
Trasse un respiro profondo e premette il tasto.
«Ranieri.» A malapena riuscì a pronunciare il proprio nome. Si
schiarì la gola. «Pronto, chi parla?»
Ti prego, Signore, pensò quando sentì il nome di Emilio Arco, il
commissario che seguiva l’indagine sul rapimento. Non ebbe il
tempo di terminare la sua preghiera.
Il
poliziotto riprese a parlare e Andrea si lasciò ricadere
all’indietro. Lacrime calde gli rigarono le guance, finendo sul cuscino.
Strinse il pugno, e l’intero braccio si contrasse.
L’avevano trovata, l’avevano trovata ed era viva!
Non capì tutto quello che Arco gli stava dicendo, se lo fece
ripetere.
«Arrivo» concluse poi, riattaccando.
Si accorse solo dopo che non lo aveva neanche salutato.
Si mise a sedere e una fitta lancinante alla testa lo rallentò. La
bottiglia di whisky quasi vuota era sul comodino, accanto al bicchiere
che aveva rischiato di scivolargli dalle dita prima di addormentarsi.
Erano due sere che si stordiva con il whisky fino a crollare invece di
cenare.
Lottando contro il dolore che gli trafiggeva il cranio e la nausea
si alzò. L’immagine che gli restituì lo specchio del bagno era quella
di un uomo con la barba lunga e gli occhi iniettati di sangue.
Non importava.
Un paio di minuti dopo era alla porta di casa. Si ricordò
all’ultimo momento di voltarsi a chiuderla a chiave, ma non tornò
indietro quando si accorse che aveva lasciato le luci accese.
Corse fino alla macchina. L’avevano ritrovata!
Una manciata di parole in disordine gli si affollava nella mente,
parole che aveva sentito durante la telefonata che aveva appena
ricevuto.
Priva di sensi, disidratata, confusa. Ospedale.
L’ospedale andava bene, significava che si stavano prendendo
cura di lei.
Significava che si sarebbe ripresa.
Salì sul suo fuoristrada, mise in moto, accese i fari e fece
partire il tergicristallo.
Poi si rese conto che le gocce d’acqua che gli impedivano di
vedere con chiarezza non erano sul vetro ma nei suoi occhi.
Pianse per tutto il tragitto.
Sentiva le voci, tante voci.
Parlavano, le parlavano, si sovrapponevano.
Ogni volta che apriva gli occhi si ritrovava circondata da volti
sconosciuti, alcuni coperti da maschere. No, non maschere:
mascherine da dottori.
Dov’era?
Si ricordava del bosco. Era stanca. Quanto aveva corso?
Doveva ancora correre?
E aveva freddo, aveva i piedi gelati. No, ora erano caldi.
Dove si trovava?
Non era ferma, la stavano spingendo da qualche parte.
Riaprì gli occhi. Le luci erano abbaglianti. Si concentrò sulle
macchie di colore, sulle persone che aveva intorno. Un viso coperto
da una mascherina verde. Una donna con i capelli nascosti da una
cuffia verde. Un uomo a volto scoperto.
Quel volto.
Aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto. Occhi che erano
piantati nei suoi.
Mosse le labbra per chiamarlo.
Ma non si ricordava il suo nome.
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