Scacco matto – Monica Lombardi

SINTESI DEL LIBRO:
Le pesanti tende scure lasciavano filtrare dei raggi di luce che
inondavano il centro della stanza lasciando il resto in penombra,
incluso il letto su cui John Forrester III giaceva ormai da diversi mesi.
Aveva contato i giorni, all’inizio, poi le settimane. Aveva smesso
quando aveva capito che, nonostante le pietose bugie delle poche
persone che avevano accesso a quella camera, non ci sarebbe stato
alcun recupero. Era un cervello ancora attivo intrappolato in un
corpo per metà insensibile e per metà in disfacimento, un
disfacimento accelerato dall’immobilità forzata. Le sue possibilità di
parlare con il mondo esterno erano limitate a mugugni e brevi parole
storpiate, quasi incomprensibili. Cercava di comunicare con gli occhi
ma pochi sembravano prestare attenzione a quei tentativi o essere
in grado di capirli. Da tempo ormai aveva accettato l’amara verità:
era solo, immobile, ancora parte di un mondo con cui non riusciva
più a interagire, come un baco in un bozzolo dal quale non sarebbe
più uscito. Una fine che non avrebbe augurato neanche al suo
peggior nemico.
Le visite dei suoi avvocati si erano diradate, aveva cercato di
chiedere perché e quando neanche Benjamin, il suo assistente, che
viveva in casa sua da anni, lo aveva capito, aveva avuto un attacco
isterico che era stato interpretato come una crisi respiratoria e
tacitato con la maschera dell’ossigeno. Risultato: i medici dovevano
aver aumentato le dosi di tranquillante perché ora i momenti di
sonno e di veglia si rincorrevano a caso, come un’enorme palude
grigia che occupava le sue giornate e le sue notti, ormai
indistinguibili se non per la quantità di luce che le tende lasciavano
entrare.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anche il suo
cervello aveva in qualche modo iniziato a gettare la spugna,
accettando il fatto che era inutile, frustrante impegnarsi in qualsiasi
attività diversa dalla minimale routine di quella stanza, che era stata
la sua ampia, lussuosa camera da letto e ora sarebbe diventata la
sua monumentale tomba. Era sempre stato caparbio. Ora la sua
caparbietà aveva cambiato direzione: dopo essere rimasto
inutilmente attaccato a una vita che non era neanche il pallido
riflesso di ciò che era stata, John Forrester III, o quello che era
rimasto di lui, andava incontro a grandi passi alla morte.
Benjamin Lachs aveva tenuto fede alla promessa, facendogli
trovare l’ingresso sul retro aperto e le scale di servizio deserte.
Sapeva che lo avrebbe fatto. Fai oscillare davanti agli occhi di un
giocatore d’azzardo la prospettiva di una linea di credito inesauribile
e ti sei fatto un amico per la vita. E per la morte.
Nel corridoio dove si trovava, era proprio la puzza di morte che
filtrava da sotto la porta a doppio battente, imponente come il resto
della villa. Tessuto necrotico, pipì ed escrementi, odore stantio: il
marcio di una vita che è già stata quasi del tutto rosicata via dalla
fine che avanza. In fondo stava per fare un favore all’uomo che
avrebbe trovato dietro a quel pannello di legno intarsiato,
immobilizzato in un letto che era già una bara. Se la consapevolezza
che, fino alla malattia, Forrester era stato un arrogante bastardo che
aveva schiacciato chiunque fosse più piccolo di lui come un insetto
lo liberava da qualsiasi senso di colpa, l’idea che il vecchio fosse
destinato a spegnersi in una lenta agonia lo faceva sentire quasi un
buon samaritano per ciò che stava per fare.
Sono venuto a liberarti da questo inferno sulla Terra, John
Forrester III, pensò, infilando la mano nella tasca interna del sottile
giubbotto ed estraendone un astuccio nero.
Il
suo piano aveva cominciato a formarsi proprio leggendo
dell’ictus che aveva stroncato il tycoon più di un anno prima. Era nel
mezzo di un’altra operazione, allora, ma sapeva già che il momento
di sfruttare il miliardario, insieme alle altre pedine che aveva
assembrato durante l’estate, sarebbe arrivato.
Si era trovato più volte incapace di dormire di notte, per
l’eccitazione e la mania di controllare ogni singolo dettaglio del suo
piano man mano che prendeva forma, pezzo dopo pezzo. Quando
accadeva, la chiamava.
Non dormo io, perché dovresti dormire tu, mia cara? si diceva.
All’inizio l’aveva sempre svegliata. Poi aveva cominciato a trovarla
già vigile, e sapere che erano lui e l’attesa di quegli squilli il motivo
della sua insonnia era eccitante quasi come sentire la rabbia e la
frustrazione nella sua voce, prima di riattaccare.
Un rumore dal piano di sotto lo riportò al presente. Si era
distratto, non doveva commettere simili errori da principiante. Anche
se Lachs lo copriva non doveva perdere tempo, non in quel
momento. Presto avrebbe avuto tutto il tempo del mondo.
Fece scorrere piano la cerniera dell’astuccio di pelle e ne
estrasse la siringa, rimuovendo il cappuccio senza problemi con i
guanti da chirurgo che indossava e riponendolo in tasca insieme al
piccolo contenitore di pelle. Siringa nella destra, appoggiò la mano
sinistra alla maniglia e la abbassò, schiudendo piano la porta.
Un passo all’interno mentre richiudeva l’uscio alle sue spalle, lo
sguardo in rapida perlustrazione dell’ampia camera, abitudine
rimastagli dagli anni da poliziotto. Poi lo sguardo di nuovo a fuoco
sul grande letto e sulla fragile forma indifesa sotto alle lenzuola, il
viso ossuto una macchia sul guanciale bianco.
Sei già uno scheletro, Forrester, ti faccio solo un favore.
Negli ultimi due mesi aveva scoperto che fare paura agli altri gli
dava una scarica di adrenalina potente. L’irrigidimento che notò nel
letto, l’inutile ma palese sforzo di voltare il viso verso la porta non
fecero eccezione. Forrester aveva capito che nella stanza era
entrato qualcuno ed era già inquieto.
Una parola biascicata lasciò le labbra secche del vecchio.
Benjamin, doveva aver detto Benjamin. Certo, l’ingresso
dell’assistente personale l’avrebbe rassicurato.
No, non sono Benjamin. Non sono uno dei tuoi leccapiedi, anche
se ciò non significa che tu non possa fare molto, per me.
Avrebbe voluto dirgli il suo nome, ma la realtà era che non
pensava più a se stesso come Vincent Lang da tempo. Era diventato
qualcuno di diverso, di più grande.
Avrebbe potuto entrare nel campo visivo del padrone di casa e
godersi la sua sorpresa, poi il suo panico, ma preferiva restarne fuori
e trasformare il nervosismo in paura, poi terrore.
Lo spesso tappeto attutì i suoi passi mentre si avvicinava. Arrivò
quasi al comodino prima che Forrester riuscisse a vederlo.
Si è ridotto di un bel po’ il tuo orizzonte, eh, vecchio?
«Chi è?»
Di nuovo, indovinò più che capire quei suoni, ma era l’urlo
silenzioso negli occhi del malato ad affascinarlo. Ultima forsennata
scintilla di vita in un corpo ormai inutile.
«Calma, signor Forrester».
Nuovo picco di panico. Anche la sua voce riusciva, da sola, a far
paura. Forrester non poteva ancora avere visto la siringa che teneva
lungo il fianco.
Ricordò che quel vecchio inerme aveva distrutto cose e persone,
nella sua vita, e si sentì investito di un’aura di giudice.
«Aver dominato e schiacciato molte persone e ora trovarsi qui
alla mercé di chiunque varchi la soglia della sua camera» gli disse
piano, la voce vibrante alle sue stesse orecchie. «Non so lei ma io
vedo una certa giustizia, in questo».
Gli appoggiò una mano guantata sulla fronte, ora madida di
sudore, solo per il piacere di fargli sentire la vicinanza e la
concretezza della sua presenza.
«Un momento ancora di pazienza», continuò con la voce
ammantata di crudele divertimento, «e saprà che cosa il destino ha
in serbo per lei».
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