Rex tremendae maiestatis – Valerio Evangelisti

SINTESI DEL LIBRO:
Lilith era persuasa che la navetta, la Kraeplin 111, si sarebbe schiantata
sulla superficie della Luna. Non le importava di morire: la morte era la sua
compagna di sempre. Gettò il bisturi con cui aveva ucciso il dottor Kurada e
scostò con un calcio il cadavere di quel verme. C'era sangue dappertutto.
Lei faticava a tenersi in piedi; il velivolo sbandava sempre più. Si lasciò
cadere su uno sgabello di fronte al quadro di comando. Non aveva idea
della funzione delle levette e dei piccoli schermi che aveva davanti. Chiuse
gli occhi e attese l'impatto.
Lo attese a lungo, senza nostalgie per il mondo folle – Paradice – da cui
proveniva.
D'improvviso fu strappata dal sedile e si trovò a veleggiare nel vuoto,
mentre le luci si attenuavano. Nulla di strano. La corsa sempre più
vertiginosa della navetta doveva avere logorato i sistemi di energia. Era
venuta meno la gravità artificiale, e presto sarebbe sceso il buio più totale.
Ciò l'angosciò un poco. Avrebbe preferito morire nello schianto delle
lamiere piuttosto che soffocare. Ma non era lei a scegliere. Le destò
ripugnanza il cadavere di Kurada che le veleggiava accanto. L'assenza di
gravità provocava allo psichiatra giapponese un'ultima, bizzarra erezione, e
sollevava il moncherino che aveva tra le gambe, quasi reciso da un morso di
lei. Era una scena rivoltante.
Chiuse gli occhi, ma non occorreva. Anche le ultime luci si spensero;
l'ossigeno venne a mancare. Esisteva un modo per morire più in fretta?
Forse no. Il soffocamento aveva i suoi tempi naturali. D'altra parte, le sue
mani fluttuanti erano quasi prive di sensibilità: impensabile strozzarsi da
sola, ammesso che fosse concepibile.
D'un tratto cadde pesantemente sulla schiena. La gravità era tornata, e
così la luce. Il sangue di Kurada, che si era disperso in goccioline vacue
quanto bolle di sapone, ricadde in forma di doccia. Da un altoparlante, una
voce metallica e artificiale disse: «Luna a Kraeplin 111. Abbiamo avviato
l'atterraggio automatico. Indossate le tute e rimanete seduti fino all'apertura
dei portelli».
Una seconda voce, questa volta umana, aggiunse in un inglese
elementare, dall'accento impuro: «Kraeplin 111, sembrate avere subito
danni. Vi guideremo noi a un allunaggio il più morbido possibile, ma è
inevitabile uno scossone. Scenderete lontani dalla base. I nostri mezzi
verranno a prendervi. Intanto mettete le tute».
"Quali tute?" si chiese Lilith mentre si rialzava a fatica, dolorante. Vide
da sé di che si trattava. Uno sportello, grande quanto l'anta di un armadio, si
era aperto nella parete.
Appese ai loro ganci, le tute erano tre. Tante quanti i membri
dell'equipaggio scesi a Paradice in ricognizione, durante i festeggiamenti
per il Capodanno del 3000.
Lilith era stanca e ammaccata, ma ancora ben lucida. Capì cosa doveva
fare. Sui vestiti sporchi di sangue mise giacca e pantaloni della tuta, uniti in
vita da una cerniera lampo.
Caricò sulla schiena il giubbotto con le bombole di ossigeno. Prima di
infilare uno dei caschi e collegare i tubi per la respirazione, si chiese se
fosse possibile comunicare con la base. Si avvicinò a un microfono.
«Riuscite a sentirmi?» domandò, esitante.
La voce umana subito le rispose. «Sì, certo... Riconosco dal suo
trasmettitore sottocutaneo che lei è l'infermiera chiamata in codice Lilith.
Non si preoccupi, infermiera. Avete a disposizione altre tute, dietro un
pannello che il dottor Kurada le saprà indicare. Faccia in fretta».
«Il dottor Kurada è morto».
La reazione fu di perplessità, più che di dolore. «Morto?»
«Sì».
«E i suoi assistenti?»
«Morti anche loro».
«Temevamo qualcosa del genere. Infermiera, indossi una tuta qualsiasi,
poi si tenga ben stretta. L'allunaggio è fra tre minuti. La verremo a
prendere».
Lilith collegò al casco i tubi delle bombole. Pensò che la cosa migliore
fosse sedersi sulla poltroncina principale, dotata di una specie di cintura di
sicurezza. La allacciò con cura e attese. Non poteva, da quella posizione,
vedere bene l'oblò. Le sembrò interamente occupato dalla bianca superficie
lunare. Era probabile che la navetta stesse volando rasente al suolo.
L'impatto non fu così terribile, malgrado i ripetuti sobbalzi. Quando il
velivolo si fu arrestato, con il muso piantato nella sabbia, Lilith slacciò la
cintura e si alzò. Forse aveva alcuni minuti. Ne approfittò per recuperare il
bisturi insanguinato, ripulirlo contro l'imbottitura di una poltrona e
nasconderlo dentro uno stivale, prima di saldare la calzatura alla tuta con
un'altra lampo.
A quel punto doveva uscire, ma non sapeva come. Nessuno dei pulsanti
che vedeva sembrava servire allo scopo. Risolse la sua incertezza un soffio
di mantice, accompagnato da un cigolio. Mentre le luci si spegnevano di
nuovo, una sezione della paratia si sollevò.
Davanti a sé, Lilith aveva la Luna, nella sua faccia debolmente
illuminata. Una passerella si era protesa automaticamente fuori della
navetta. Non toccava bene il terreno perché l'astronave era allunata in
maniera sghemba, con un'ala nella sabbia e l'altra sollevata verso un cielo
nerissimo, dominato da una Terra esagerata e incombente come uno
smisurato mappamondo. Il salto fu di quasi tre metri, ma la bassa gravità lo
rese lieve. Lilith cadde con leggiadria e si mantenne in piedi.
Si era immaginata la Luna come la raffiguravano i vecchi documentari
trasmessi a ripetizione dalle stazioni di Paradice rimaste attive, per
automatismi indipendenti dalla mano umana, dopo un intero millennio di
guerre e di violenze: un deserto di sabbia bianca, punteggiato di dune
occasionali e di ampi crateri dalle pareti scoscese. Vide invece, attraverso la
visiera del casco, una piana sconfinata con antenne trasmettitrici disposte a
intervalli regolari, fin dove giungeva lo sguardo.
Somigliava alle vigne francesi proposte, con cadenza ossessiva, da un
ridicolo documentario, tra i più replicati di una televisione ancora in
funzione, malgrado l'assenza, da secoli, di una mano umana che ne
governasse la programmazione. Quelle vigne disposte in filari squadrati
avevano cessato di esistere chissà quanto tempo prima. Ne era rimasto lo
schema, non l'aspetto, nelle antenne giganti che occupavano per intero una
delle grandi valli lunari.
Un grosso veicolo cingolato giunse sussultando e si portò in prossimità
della navetta. Si aprì una portiera e una voce registrata disse: «A bordo,
prego! A bordo, prego! A bordo, prego!..».
Lilith obbedì. Come aveva immaginato, il mezzo non aveva autista. Prese
posto su un divanetto, il primo di una fila di tre. La portiera si richiuse.
Nell'abitacolo stagnava un odore acuto di disinfettante. Il corpo del veicolo
girò su se stesso, il motore rombò, i cingoli morsero la sabbia in direzione
opposta a quella di arrivo. Partirono a velocità spedita tra le sagome
spettrali delle antenne, simili a profili di uomini con le braccia tese e le
gambe divaricate.
Lilith si sentiva esausta e aveva sonno. Forse dormì anche un poco, ma
non se ne rese conto. Il paesaggio rimase invariato, nella sua monotonia, per
chilometri e chilometri.
Alla fine, tra distese piatte e piccole dune, le antenne terminarono.
Apparve invece, bianca più della sabbia, una cupola alta, con ampi oblò
illuminati. Attorno, lunghi baraccamenti sigillati, simili a enormi container,
erano inondati di luce da fari posti in cima a torrette. Tra gli edifici
sostavano veicoli simili a quello su cui si trovava Lilith e altri più grandi,
ma non si vedeva traccia di attività umana. Sorgevano poi, direttamente dal
suolo, dei boccaporti che terminavano in camini d'acciaio ricurvi, dotati di
piccole turbine. Il silenzio era assoluto.
L'impressione generale era di una tristezza disumana.
Mentre il veicolo si accostava alla cupola, Lilith lesse su un cartello,
incisa in varie lingue e molti alfabeti, la scritta che si attendeva: WMHO
ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ MENTALE. Lì
risiedevano dunque gli psichiatri e gli specialisti che, come il compianto
dottor Kurada, assistevano un'umanità impazzita, o fingevano di farlo. Il
cartello era però arrugginito, e la simbologia che lo decorava aveva cessato
da un pezzo di significare qualcosa.
Lilith fu risvegliata da un afflusso di adrenalina intenso quanto quello che
l'aveva indotta a uccidere Kurada. Lì si acquattavano i suoi nemici. Si
sarebbe sforzata di rimanere calma fino al momento più propizio. Non era
facile, ma doveva farlo. Sapeva che gli oggetti dei suo odio erano un
centinaio almeno: occorreva astuzia per morderli alla gola, l'uno dopo
l'altro.
Qualcuno le parlò, ma non attraverso i microfoni. Comunicò con i suoi
padiglioni auricolari, o forse direttamente con il suo cervello, attraverso il
microchip impiantato in chissà quale zona del corpo. Era una caratteristica
comune a quanti, senza nemmeno saperlo, erano stati infermieri del
WMHO, eterodiretti dai sanitari che abitavano la Luna.
«Infermiera Lilith, tra pochi istanti sarà depositata nella camera di
decompressione. Dovrà attendere per qualche minuto un mio segnale, con la
tuta addosso. Varcato il secondo sportello, potrà togliere la tuta e ogni altro
indumento. Vedrà una doccia. È necessario che si lavi con estrema cura,
usando il sapone messo a disposizione. Gli abiti che troverà saranno quelli
che dovrà indossare».
La voce non era né amichevole né ostile: semplicemente neutra, con un
accento che a Paradice nessuno possedeva. Neanche si poteva attribuirla,
come di solito accadeva, a una delle comunità che popolavano la metropoli
terrestre. La freddezza faceva pensare agli Schizo, la cortesia di fondo ai
Depressi. Però poteva benissimo trattarsi anche di un Isterico o di un
Ossesso dalle caratteristiche anomale.
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