Petrademone- La terra del non ritorno – Manlio Castagna

SINTESI DEL LIBRO:
Vanni Drogo scomparve a un’ora imprecisata del 29 aprile 1955. A
distanza di trent’anni, suo padre non aveva smesso di cercarlo.
Un’indagine condo a in solitaria. Una matassa che l’ex tenente
maggiore dell’esercito italiano Dino Drogo (ormai noto
semplicemente come “il Vecchio Drogo”) doveva sbrogliare da solo.
D’altronde, nessuno avrebbe potuto far nulla per aiutarlo. Suo figlio
Vanni non era sparito nel suo mondo, ma nei boschi di Nevelhem,
nel Regno della Nebbia oltre il Cancello. Nella terra oscura di
Amalantrah.
29 aprile 1955
Il bosco di Nevelhem era sospeso in un perenne e malinconico
autunno, fasciato da bende di nebbia fi a. Nel paesaggio muto e
la iginoso, due figure si muovevano caute. L’unico suono era il
crepitio dei passi sul tappeto di foglie secche.
Fu il ragazzino a far scoppiare la bolla di silenzio tra di loro.
«Papà, come fa un altro mondo a stare dietro una porta?»
«È la terza volta che mi fai la stessa domanda, Vanni. Solo
nell’ultimo mese» rispose spazientito Dino Drogo.
«Ci sono altre persone che ci vengono? Cioè, dal nostro mondo,
come noi?» Vanni tro erellava felice intorno al padre, ma non lo
sfiorava mai. All’ex tenente non piacevano quelle smancerie tipo
tenersi per mano o stringersi in un abbraccio.
«Sì, ce ne sono altri» gli rispose secco.
«Quelli che chiamano i “passanti”? Quelli che camminano tra i
mondi?»
«Se già lo sai, perché diavolo me lo chiedi, allora?»
«Bello, noi siamo i passanti! Forte!» Vanni non si faceva mai
scoraggiare dalle sue risposte aspre. Aveva fa o il callo al gusto
amaro dei dialoghi con il padre.
A vederli uno accanto all’altro, la loro somiglianza balzava subito
agli occhi. Come se qualcuno avesse disegnato il volto del figlio su
una carta velina sovrapposta al ritra o di Dino Drogo. Vanni era un
dodicenne dal corpo so ile, un filo d’erba appeso a occhi grossi e
profondi e sormontato da capelli scuri che scendevano scomposti
sulla fronte, quasi che nessuno si fosse mai preso la briga di dirgli
che stavano crescendo troppo.
La sua costituzione era evidentemente un bene di famiglia che si
tramandava a raverso le generazioni: anche il padre aveva un fisico
magrissimo che ricordava una pergamena, tanto che se lo guardavi
di profilo sembrava gli mancasse la terza dimensione. “Alice Salata”
lo chiamava la madre quando era un bambino. Il piccolo Dino aveva
sempre odiato quel soprannome da acciuga pressata e chiunque si
fosse azzardato, a parte la mamma, a riferirsi a lui in quel modo non
avrebbe dimenticato facilmente le conseguenze della sua furia.
Dopo un a imo di pausa Vanni chiese ancora: «Abbiamo anche
noi i boschi, no? Quindi non sono poi così diversi il nostro mondo e
questo».
L’uomo sentì l’esasperazione offuscargli la mente. Trovava illegale
la curiosità infantile: le raffiche di “perché” e tu e le altre domande
gli sbrindellavano la pazienza. Non che ne avesse molta di suo.
«Non ci sono stagioni qui. Per dirne una. E questo è un bosco…
diverso da quello che abbiamo dall’altra parte. Non vedi che gli
alberi sono bianchi?!»
«Cioè, sulla Terra non ci sono alberi bianchi?»
Procedendo senza fermarsi, Dino Drogo gli ge ò una risposta:
«Sì, qualcosa c’è. La betulla, e forse anche altre specie. Non lo so. Ma
questi sono diversi. Hai mai visto roba del genere da noi?» e indicò
gli alberi color la e, nei quali si riusciva a intravedere, in
trasparenza, la linfa che saliva e scendeva a raverso il tronco.
Vanni era sul punto di replicare, ma suo padre lo scoraggiò dal
farlo con uno dei suoi sguardi affilati e con una sentenza senza
g
appello: «Basta adesso! Non voglio più sentire nemmeno una parola.
Pensa a camminare, non è prudente restare tu o questo tempo in
giro qui fuori».
A quell’ennesimo rimprovero il ragazzo ammutolì. Prese a
scavarsi dei piccoli solchi nel palmo della mano con il taglio delle
unghie. Stringeva i pugni in quel modo quando doveva reprimere la
tristezza – la tra eneva dentro di sé come quelle nuvole capaci di
chiudersi la pioggia in pancia fino a farla evaporare senza liberarla
giù.
Era sempre stato difficile per lui penetrare la pietra granitica del
cara ere paterno, così nel tempo si era addestrato a scomparire dalla
sua vista, a diventare in casa simile a quelle carte da parati a cui si
f
inisce per assuefarsi fino a non accorgersi più che ci sono.
Eppure Vanni nutriva un amore sconfinato per il papà. E niente lo
rendeva più felice di quelle brevi visite insieme nel “bosco di
nebbia” (come lo chiamava segretamente). Aveva accumulato così
tante curiosità negli ultimi due anni, da quando la prima volta aveva
messo piede lì, che ogni suo pensiero sembrava ormai cristallizzato
intorno al mistero di quel posto.
Accompagnava suo padre ad Amalantrah da quando era morta la
madre: era stato a quell’epoca che aveva rinunciato all’idea di
conquistare il suo rispe o, la sua ammirazione o addiri ura il suo
amore. E se prima raggiugere la ve a del cuore paterno gli appariva
un’impresa ardua, ma ancora possibile grazie alla complicità della
madre, alla morte prematura di quest’ultima l’arrampicata era
diventata praticamente impossibile.
Il lu o aveva indurito ulteriormente Dino Drogo. Il suo guscio si
era chiuso.
Le visite al bosco di nebbia erano sempre molto brevi. Ci
arrivavano passando da una “porta” nascosta nello scantinato. Vanni
non avrebbe mai dimenticato la prima volta che l’avevano varcata
insieme.
Maggio 1953
Sua madre era scomparsa da un paio di se imane. Era sì malata da
tempo, ma non per questo Vanni ne aveva sofferto di meno. Niente
aveva potuto prepararlo a quel dolore pietrificante, nemmeno averla
vista spegnersi giorno dopo giorno, prosciugata dal male oscuro.
La lunga mala ia della mamma non aveva corazzato il cara ere
di Vanni abbastanza da renderlo capace di reggere l’impa o della
perdita, anzi, ne aveva talmente minato le fondamenta che alla
tremenda scossa della sua morte il bambino era crollato
miseramente, in uno schianto di detriti farinosi.
Aveva pianto così tante lacrime da innaffiare un deserto e
renderlo fertile. Aveva rifiutato la solidità del mondo esterno per
rifugiarsi in fondo al fiume violento del proprio dolore. Aveva anche
stupidamente cercato consolazione in suo padre. Invece Dino Drogo
era diventato un monolite freddo, remoto. Uno di quei pezzi di
universo che si staccano da chissà quale pianeta frantumato e
vagano solitari lungo orbite disegnate da una fisica sconosciuta.
E poi c’era stato un pomeriggio in cui l’asteroide era entrato in
collisione con la traie oria del figlio. Inaspe atamente. Il tenente
aveva aperto la porta della stanze a dove Vanni aveva stabilito il suo
impero delle lacrime e gli aveva de o: «Voglio mostrarti una cosa.
Vieni con me».
Il bambino lo aveva seguito giù nello scantinato senza dire una
parola, senza azzardarsi a sfiorarlo, quasi che il corpo del padre
fosse recintato da un filo ele rificato. Lo stava portando dove gli era
stato sempre proibito di entrare. Da lì a una se imana avrebbe
compiuto dieci anni ed era la prima volta che me eva piede lì
dentro.
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