Nella balena – Alessandro Barbaglia


SINTESI DEL LIBRO:
Ha sei anni, si chiama Alessandro. Tu i lo chiamano Cerro.
I bambini di quell’età, di solito, si divertono a giocare agli indiani.
A me ere le dita a pistola e fare pum pum con la voce. Ad alcuni
piace riempire di sabbia una scarpa, svuotarla in un punto per farne
montagne. In tanti pedalano su una bicicle a rossa rischiando le
ginocchia, altri non sanno resistere ai rimbalzi del pallone.
Il gioco preferito di Cerro è accorciare le distanze dal padre,
Emilio. Per sentirlo vicino prova a invecchiarsi, a me ersi addosso
più anni di quelli che ha. A vestirsi e pe inarsi come lui, tanto per
cominciare.
Si allaccia la camicia bianca fin so o il collo, si stringe sul polsino
un orologio gioca olo blu. Ai piedi ha mocassini non suoi. Persino i
calzini in cotone molle sono del suo papà. La sua testa è un bosco di
ricci, ma fa tenerezza la costanza con cui si è accanito sui capelli. Ora
sono tu i tirati indietro, bagnati. Appiccicati di brillantina.
Cammina; per un vezzo si appoggia all’ombrello del padre, ne fa
un bastone da passeggio. Si guarda allo specchio, è soddisfa o.
Sembro un vecchio di dodici anni pensa. Viene voglia di abbracciarlo.
Suo padre è in studio, lo vede arrivare, sorride.
Non è vero, non sorride. Nel ricordo Emilio è quasi certo di averlo
fa o; nel ricordo Cerro giurerebbe il contrario.
Ma cos’è un ricordo se non la realtà che non abbiamo scordato?
Allora interviene la Santina.
«Non si disturba ’o do ore quando lavora! ’O do ore non va mai
disturbato!»
E cerca di prenderlo, di infilargli le mani so o le ascelle per
sollevarlo di peso, ma Emilio scosta la poltrona dalla scrivania e
Cerro gli si siede in braccio.
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«Adesso facciamo un gioco» gli dice. «Io mi nascondo, tu conti
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ino a centotrentase e vaccinium myrtillus, poi vieni a cercarmi.»
La Santina sostiene che Cerro sia un orologio, che sappia divorare
un mirtillo al secondo. Se gliene dai una scodella da sessanta, in un
minuto la svuota.
La ragione per cui il bimbo sa che il nome scientifico del mirtillo è
vaccinium myrtillus è la stessa per cui invece di Alessandro tu i lo
chiamano Cerro: sua madre. Impiegherà una vita a scoprirlo.
«Stai qui fino a centotrentase e» ripete puntando l’aria con
l’indice perché suo papà non scordi quel numero. «E poi vieni a
cercarmi.»
In giardino, dietro un albero, scalzo e spe inato, solo, lo recupera
la Santina.
È ora di cena.
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Adesso Cerro ha più o meno l’età che aveva suo padre il giorno dei
centotrentase e mirtilli; adesso si assomigliano molto. Addiri ura,
anche se non si capisce chi dei due ha preso la decisione di lasciarseli
crescere e chi l’ha imitata, hanno entrambi smesso di pe inarsi i
capelli all’indietro. E se quelli di Cerro sembrano una foresta, quelli
di Emilio non sono da meno. Solo più bianchi.
N’avessero dati due in più pure a me di sti cespuji! pensa la Santina. È
rimasta con loro ogni giorno, tu a la vita. Lei i capelli li ha fini fini,
lisci lisci, radi radi. Neri. Li raccoglie spezzati qua e là.
Sono trascorsi più di trent’anni, in quella famiglia non è cambiato
nulla. Anche Caterina, la mamma di Cerro, è ancora un fantasma per
tu i. Ma per non esagerare, racconteremo una cosa triste alla volta.
Una sera, sul mobile all’ingresso, Cerro trova una busta ben sigillata.
La rigira tra le dita, ne legge il mi ente: Emilio.
«La spedisco?»
«E a chi?»
«Papà, se non lo sai tu...»
Ed Emilio no, non lo sa. E ha dei dubbi anche su un fa o: ma chi è
questo tizio che lo chiama papà? Il postino?
Non ci si abitua mai. Per Cerro, scene del genere sono un’ape sul
labbro. Il rischio di un dolore. Ecco perché Cerro di suo padre non
parla mai.
La bicicle a su cui pedala però è di Emilio; se piove, in ufficio ci
va con la sua a rezzatura. L’orologio troppo costoso e fuori moda
che indossa? È quello del padre, lo usa per bellezza, è fermo, non
serve a nulla. Cerro ce l’ha sempre addosso. Come da bambino, gli
ruba le scarpe e i vestiti: ora gli vanno giusti. Voleva crescere in fre a
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e così, a trento o anni, indossa già una vecchiaia non sua, è
ammalato di un guaio che non gli appartiene: la mala ia di suo
padre.
«Ma dove le compri tu e queste cose antiche? Nell’Oocento?» gli
chiedono i colleghi, al lavoro.
«Sono di mio padre.»
«E non ti dice niente?»
«Ha un guaio alla memoria sele iva, se gliele prendo non se ne
accorge.»
«Intendevo: non ti dice niente che ti stanno male?»
«Ha sempre quel guaio alla memoria. Non si accorge neanche di
quello.»
S’interrompe; santo cielo, che ha fa o! Che gli è saltato in mente
di raccontare! Questa è gente che può solo fraintendere: chi vive con
un malato, altro non può fare che una vita malata, ma la gente che
non lo sa non può capire come stanno le cose, neppure sa
dispiacersene in maniera coerente.
«Oh mi spiace.» Questa è la voce del ragazzo più giovane che c’è lì
dentro. Ma eo. «Mi spiace moltissimo. Però almeno se prendi una
multa la fai pagare a lui. Se ti dimentichi del suo compleanno non si
offende. Se non ti sposi non può rimproverarti che non trovi una
donna. No? Non è male se puoi fare cose così. Perché le puoi fare
cose così, vero?»
Stagisti.
Ma eo ha ventisei anni, sta nel suo ufficio da quindici giorni.
Vorrebbe me ersi un chip nel cervello per conne ersi a internet con
il pensiero. E tra un mese, se lo lasciano a casa, farà la coda per il
reddito di ci adinanza perché con quello guadagna di più e sta sul
divano a sviluppare App.
Benvenuto, futuro del mondo! E vorrebbe dirgli che le cose che
può fare con suo padre sono lavargli il culo perché si caga addosso,
imboccarlo perché non sa dov’è la bocca, badare che di no e non
scappi.
Si alza, va alla finestra.
«Sì» risponde spalancandola, «potrei fare anche cose così.»
«Fantastico, no?»
C’è un po’ di vento. Trascina dentro un’ape esploratrice. Cerro
d’istinto la schiaccia sulla scrivania; lo scricchiolio d’ali non lo
consola. Più tardi, in bagno, si leverà il pungiglione. Il dolore resterà
ben più a lungo.
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