Morendo ho ritrovato me stessa -Viaggio dal cancro, alla premorte, alla guarigione – Wayne W. Dyer Anita Moorjani


SINTESI DEL LIBRO:
L’India è un Paese meraviglioso, tuttavia non era mio destino viverci.
I miei genitori sono di etnia indiana, originari di Hyderabad Sindh,
ma io sono nata nel bel Paese di Singapore.
Mio nonno paterno era un commerciante tessile e possedeva una
impresa di famiglia in Sri Lanka; importava ed esportava in tutto il
mondo tessuti europei, indiani e cinesi. Per via della tipologia della
nostra azienda, mio padre dovette viaggiare parecchio prima di
stabilirsi finalmente in quella che era la colonia britannica di Hong
Kong, quando avevo solo due anni.
Le mie origini mi hanno fatto immergere contemporaneamente in tre
culture e lingue diverse. Hong Kong, una metropoli vibrante e attiva,
è una città abitata prevalentemente da cinesi, così imparai a parlare
il cantonese con la gente del posto. I miei genitori mandarono me e
mio fratello Anoop alle scuole britanniche, dove le lezioni erano in
inglese e la maggior parte dei compagni erano figli di espatriati
britannici. A casa però si parlava la lingua nativa sindhi e si viveva
secondo i precetti dell’induismo.
Mio padre era un uomo alto e bello, che pretendeva rispetto dalla sua
famiglia. Malgrado sapessi che ci amava, i suoi modi erano severi e si
aspettava che ci conformassimo alle sue regole. Lo temevo, e da
bambina facevo in modo di non incontrarlo mai. Al contrario mia
madre era sempre gentile con mio fratello e con me, e non ho mai
avuto paura di confidarle i miei sentimenti.
Adoravo Anoop: siamo sempre stati molto vicini, sebbene lui abbia
cinque anni più di me. Per dei bambini, è una bella differenza di età,
infatti raramente abbiamo giocato insieme o bisticciato. Piuttosto, io
lo prendevo come modello e lui era molto protettivo nei miei
confronti. Mi sentivo al sicuro quando c’era lui e sapevo di potergli
parlare di qualsiasi cosa. Ha sempre esercitato sulla mia vita
un’influenza maschile più forte rispetto a mio padre.
Come vuole la tradizione induista, i miei genitori avevano avuto un
matrimonio combinato e speravano di riuscire a sistemare in modo
consono anche noi, quando fossimo stati grandi abbastanza. Inoltre,
secondo la tradizione, una donna doveva essere asservita al marito e
agli uomini della casa.
Simili disparità sono all’ordine del giorno nella mia cultura. Da
piccola non mettevo in discussione questi valori e davo per scontato
che le cose dovessero andare così. La prima volta che sperimentai
sgradevolmente sulla mia pelle questa disparità avevo solo sei anni e
stavo origliando una conversazione tra mia madre e un’altra signora.
“Ci sei rimasta male quando hai scoperto che il secondogenito era
una femmina?” chiese questa donna nel nostro dialetto indiano.
Sentii montare dentro di me una sensazione di ansia mentre
attendevo la risposta.
“Certo che no. Amo mia figlia!” rispose mia madre, con mio grande
sollievo.
“Ma le femmine sono un problema, soprattutto quando crescono”
insisteva l’altra. “Con le ragazze devi stare attenta che rimangano
pure, altrimenti non troveranno un buon marito. E la dote richiesta
per sposare una ragazza aumenta col passare degli anni!”.
“Non si può prevedere il futuro. Ogni figlio, maschio o femmina che
sia, porta con sé il proprio destino” ricordo che mia madre le rispose
saggiamente.
“Be’ io sono felice di avere due figli maschi!” affermò la donna con
orgoglio. Persino la mia giovane mente fu in grado di avvertire il
senso di soddisfazione insito in questa affermazione.
Più tardi, quando fui da sola con mia madre le chiesi: “Mamma, è
vero che le femmine sono un problema?”.
“Certo che no, Beta cara” mi rispose. (Beta è un vezzeggiativo usato
nel nostro dialetto per dire “figlia mia”.)
Mia madre mi attirò a sé e mi strinse in un abbraccio e ricordo che in
quell’istante pensai: Non voglio essere un problema per i miei
genitori solo perché sono una femmina. Non voglio che
rimpiangano che non sia nata maschio.
La nostra prima casa a Hong Kong era un appartamento in un
edificio di nove piani a Happy Valley, con vista sull’ippodromo.
Passavo le ore guardando dalla finestra i fantini nelle divise colorate
che addestravano i cavalli per le gare del fine settimana.
La linea del tram correva lungo la strada principale sotto il nostro
condominio e i vagoni interrompevano rumorosamente i miei sogni a
occhi aperti con il loro sferragliare, mentre guardavo fuori dalla
finestra del settimo piano.
La maggior parte delle mattine sgusciavo fuori dal letto accolta dalla
ricca fragranza familiare dell’incenso di sandalo e di rosa. Ho sempre
amato quel profumo, perché infondeva in me un senso di pace e di
serenità. Di solito trovavo mia madre, vestita con uno dei suoi
coloratissimi salwaar kameez (abito tradizionale indiano), fatto
principalmente di fine seta indiana o chiffon francese, pronta a
entrare nel nostro santuario domestico.
Ogni mattina, i miei genitori meditavano, pregavano e intonavano
mantra nel nostro santuario, di fronte alle divinità Krishna, Laxmi,
Shiva, Hanuman e Ganesha. Lo facevano per affinare la loro
consapevolezza e rafforzarsi interiormente prima di affrontare una
nuova giornata. I miei genitori seguivano le scritture contenute nei
Veda induisti e gli insegnamenti del Guru Nanak presenti nel suo
libro sacro, il Guru Granth Sahib.
Spesso sedevo davanti al santuario e osservavo attentamente i miei
genitori mentre accendevano l’incenso e compivano movimenti
circolari di fronte alle statuette e alle immagini di diverse divinità,
intonando la loro puja (preghiera indù). Avrei voluto imitarli.
Più tardi, osservavo la nostra tata cinese, Ah Fong, sbrigare le varie
faccende domestiche mentre mi parlava in cantonese. Il suo corpo
minuto, avvolto nel samfoo bianco e nero (abito cinese tradizionale),
faceva piccoli, rapidi movimenti mentre si spostava per la casa. Le
ero molto affezionata. È stata con noi fin da quando avevo due anni e
non ricordo un periodo in cui non abbia fatto parte della famiglia.
Nei giorni feriali di solito non vedevo i miei genitori fino a sera. Ah
Fong mi veniva a prendere a scuola e dopo essere tornate a casa per
pranzo, mi portava con sé al mercato per acquistare cibo fresco e
prodotti per la casa. Ci spostavamo in tram e mi piaceva tantissimo
fare quei giri con lei.
Saltavamo sul tram non appena si fermava lungo la via, proprio fuori
dal nostro condominio. Era una tale avventura per me. Guardavo
fuori dal finestrino mentre il tram si faceva largo attraverso le strade
strette e affollate di Hong Kong, lungo Happy Valley, Causeway Bay e
Wan Chai; poi scendevamo al mercato e Ah Fong mi teneva
strettamente per mano. Mi piaceva tantissimo assorbire ogni cosa
che vedevo, ogni odore e ogni suono. I miei genitori non mi
portavano mai in posti così eccitanti! Loro si spostavano
esclusivamente in macchina e facevano i loro acquisti nei grandi
magazzini, così noiosi in confronto a questo caleidoscopio di colori e
sensazioni.
Al mercato vendevano di tutto, dai cibi freschi ai prodotti per la casa,
dai ninnoli alla chincaglieria. Gli ambulanti urlavano le loro offerte e
le bancarelle non erano disposte secondo un ordine particolare. Tra i
banchi della verdura spuntavano quelli dei venditori di scarpe, fiori,
pentole e padelle, giocattoli di plastica a poco prezzo, spiegamenti
multicolore di frutta fresca, gioielli, palloncini, pesce, carne, calze e
calzini, fazzoletti e asciugamani colorati, biancheria per la tavola e
così via, e la merce per la maggior parte traboccava fin sulla strada.
Restavo ipnotizzata per ore.
“Ah Fong, Ah Fong! Guarda là! Cosa fa quell’uomo con il serpente?”
gridai eccitata una volta in fluente cantonese.
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