Nel nome della croce – La distruzione cristiana del mondo classico – Catherine Nixey


SINTESI DEL LIBRO:
Satana sapeva bene come tentare sant’Antonio. Un giorno, in un
remoto angolo dell’Impero romano, in Egitto, quest’uomo giovane e
benestante attirò l’attenzione del Maligno quando fece qualcosa che
a quel tempo era davvero insolito. All’età di vent’anni, Antonio uscì di
casa, vendette i suoi beni, diede via la sua terra e andò a vivere in
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un porcile.
Il mondo romano del 270 d.C. non era uso alla celebrazione di una
vita semplice. In effetti, se Satana avesse dato un’occhiata a
quell’impero, avrebbe certamente gioito nel vedere i frutti del suo
lavoro. Lussuria, gola e avarizia dilagavano sulla terra. Laddove un
tempo i nobili romani erano orgogliosi delle loro umili tuniche fatte in
casa, ora si aggiravano sudando sotto tessuti di porpora che
brillavano di ricami dorati. Le donne erano persino peggio:
indossavano sandali tempestati di diamanti e costosi vestiti di seta
così trasparenti da lasciare intravedere ogni curva dei loro corpi.
Laddove un tempo un nobile romano si sarebbe vantato di
rinvigorirsi con gelide nuotate nell’acqua vorticosa del Tevere, la
generazione dell’epoca preferiva acquistare bottigliette di argento
colme di unguenti e balsami per la cura del corpo e recarsi presso
terme decorate in modo sontuoso.
Quello che succedeva tra i vapori delle sale termali, poi, era di un
libertinismo sfacciato. Le donne si denudavano e lasciavano che le
dita lucide di olio dei loro servi massaggiassero ogni centimetro del
loro corpo. Gli uomini e le donne facevano il bagno insieme,
ciascuno pronto a «spogliarsi della propria modestia», come scrisse
un osservatore, «assieme alla loro tunica».
2Lo stesso autore, colmo
di imbarazzo, poté solamente mugugnare descrizioni generiche e
vaghe riguardo alla «lussuria» e alla «licenziosa indulgenza» che
regnava nell’umido tepore delle terme. Gli affreschi dei complessi
termali di Pompei sono molto più precisi. In uno spogliatoio, sopra
uno scaffale dove i visitatori potevano lasciare i propri vestiti, si
vedeva la piccola illustrazione di un uomo che praticava sesso orale
su una donna. E questa illustrazione non era l’unica della stanza. Al
di sopra di ogni mensola si poteva osservare un’immagine differente:
un ménage à trois qui, un rapporto saffico là, e così via. Rispetto alla
banale combinazione del lucchetto, si trattava di un metodo assai
efficace per memorizzare dov’erano stati lasciati i vestiti (o almeno,
questa è una delle interpretazioni fornite in merito).
Se Satana avesse poi rivolto il suo sguardo alle tavole imbandite,
avrebbe concluso con soddisfazione che il comportamento dei
romani dell’epoca, anche in questo frangente, era ugualmente
permissivo. Secoli prima, l’imperatore Augusto avrebbe apprezzato e
ostentato una dieta semplice, composta da un tozzo di pane rustico
e formaggio fatto in casa. Tale frugalità ebbe vita breve: di lì a poco, i
buongustai avrebbero sorseggiato vini vecchi di un secolo tenuti al
fresco da neve sciolta e versati in calici ingioiellati, il tutto
accompagnato da ostriche pescate ad Abydos sull’Ellesponto. E
tutto ciò mentre la maggioranza dei cittadini moriva di fame. Ma
neppure i commensali ai tavoli più eleganti avevano
automaticamente diritto al cibo e alle bevande migliori: il mondo
romano era appariscente ma rigidamente gerarchico e gli ospiti
distribuivano il vino secondo il ruolo sociale di ogni partecipante,
riservando i vini peggiori ai convitati meno abbienti, versando vini
mediocri a quelli meno in vista e destinando vini eccellenti agli
invitati più altolocati.
Il giovane Antonio, prima di ritirarsi nella sua porcilaia, era il tipo di
uomo al quale sarebbero stati presto offerti i vini migliori. Era un
provinciale, questo è vero, ma era giovane, bello, sano e in forma;
aveva ricevuto un’educazione rispettabile (anche se, secondo
l’onorata tradizione dei giovani uomini privilegiati, si rifiutò di
sfruttarla al meglio) ed era benestante: Antonio aveva recentemente
ricevuto in eredità centinaia di acri di terra buona da coltivare, ed era
dell’età giusta per lasciare il proprio segno sul mondo. Invece,
Antonio abbandonò tutto. Non molto tempo dopo la morte dei suoi
genitori, si trovava in chiesa, quando gli capitò di ascoltare un
passaggio dal Vangelo di Matteo che così recitava: «Se vuoi essere
perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un
tesoro nel cielo».
3Fece così. Quindici anni più tardi, Antonio – che
sarebbe diventato così celebre da essere conosciuto semplicemente
con il suo nome – decise di fare ancora di più, partendo per andare a
stabilirsi in un forte romano ai confini del deserto egiziano, dove
avrebbe vissuto per vent’anni. Dopo questo periodo, si sarebbe
ritirato a vivere su una montagna prospiciente il Mar Rosso, dove
sarebbe infine morto nel 356 d.C.
Antonio non era uno dei buongustai dell’impero. Nessuna
lampreda siciliana per lui; solo pane, sale e acqua – e a piccole dosi,
con parsimonia, mangiando solamente una volta al giorno, dopo il
tramonto. Non era un pasto che attendeva con impazienza: durante
la sua residenza presso il forte, il pane gli veniva consegnato
solamente due volte all’anno. Ben poco della sua vita avrebbe
suscitato l’interesse di un esteta. Dormiva su una semplice stuoia di
giunchi, coprendosi con una coperta di pelo di capra. Spesso non
dormiva nemmeno, preferendo trascorrere la notte intera sveglio e
pregando. Mentre i giovani si spalmavano di balsami costosi e si
profumavano, depilandosi in modo così diligente da non poter più
distinguere il volto di un uomo da quello di una donna (così almeno
mugugnavano i moralisti del tempo), Antonio disprezzava il proprio
corpo. Lo assaltava ogni giorno, rifiutandosi di usare olio per rendere
morbida la pelle e pulirla, indossando invece vesti di ruvido pelo
senza mai lavarsi (ad eccezione dei suoi piedi, sciacquati dal fango
quando gli capitava di attraversare un ruscello). Si diceva che
nessuno prima della sua morte avesse mai visto il suo corpo nudo.
La sua era una vita dedicata all’isolamento, all’umiltà (o, per dirla
in termini meno cristianamente lusinghieri, all’umiliazione) e alla
rinuncia di sé. Eppure, pochi decenni prima della sua morte, Antonio
era diventato una celebrità. La storia della sua vita, scritta da un
vescovo di nome Atanasio, divenne un caso letterario, divorato con
avidità dall’Egitto all’Italia, e rimase per secoli un vero e proprio
successo editoriale ante litteram. I giovani leggevano questo
racconto di abnegazione e di punizione e, ispirati, se ne andavano,
sparendo inghiottiti tra le dune del deserto per imitare le gesta di
Antonio. Furono talmente tanti a decidere di partire che il deserto,
stando a quanto fu scritto, diventò una città di monaci. Secoli più
tardi, Antonio sarebbe stato onorato come il padre fondatore del
monachesimo; uno degli uomini più influenti della storia dell’intero
cristianesimo. La gente aveva già cominciato a riconoscere
l’importanza del ruolo di Antonio pochi anni dopo la sua morte.
Quando sant’Agostino aveva sentito della vita austera condotta da
Antonio, rimase così commosso dal potere del racconto che corse
nel giardino della sua abitazione, si strappò i capelli e si batté la
testa con le sue mani. Questi uomini semplici erano sorti per «rapire
il cielo»
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