Mille farfalle nel sole – Kamin Mohammadi


SINTESI DEL LIBRO:
Mio padre non ha mai parlato molto del Kurdistan. La maggior parte dei
curdi, anche quelli che non condividono alcun fervore nazionalistico, sono a
tal punto imbevuti della loro cultura, della loro lingua e del loro ambiente
che non riescono a fare a meno di portare con sé le montagne della loro
terra, ovunque vadano. Senza alcuna esplicita menzione del Kurdistan, i
miei amici curdi e le loro famiglie – persino quelli che vivono altrove da
oltre cinquant’anni – paiono sospirare torrenti impetuosi e il piacere di stare
sdraiati al sole sotto un noce, in mezzo a campi dorati.
Ma mio padre non ha mai condiviso questi ricordi, né ha mai parlato
molto della sua famiglia allargata; di tutti quei matrimoni in occasione dei
quali deve aver perfezionato i complicati passi delle danze curde. Era famoso
per la precisione e l’agilità con cui ballava, qualità che io stessa ritrovo ancor
oggi mentre si muove in salotto a Londra guidando me e la mamma, in
mano un tovagliolo bianco a mo’ di choupi, il fazzoletto delle danze tipiche
curde; incapace di staccare i passi per farmeli imparare, e altrettanto
incapace di star fermo, al suono della musica. A quel punto mia madre,
originaria della provincia del Khūzestān, una ribelle con il fuoco nelle vene,
si stufa e spezza il cerchio, roteando come un derviscio al centro della stanza
e creando il caos che mio padre, con i suoi passi precisi, tenta di contenere.
Naturalmente, non vi riesce. Non può riuscirci. Le donne Abbasian sono
sempre state focose, e la passione per l’ordine della stirpe Mohammadi ha
sempre avuto un’inuenza scarsissima, per non dire nulla, su mia madre. Lei
continua a essere il cuore della nostra famiglia, della nostra piccola tribù,
esattamente come lo è stata sua madre prima di lei e come continuano a
esserlo le sue sorelle in Iran, il nostro paradiso perduto.
I nostri genitori non parlavano del passato con noi, ma cercavano di
trasmetterci la loro cultura; ero io a non volerne sapere. Quando ci
trasferimmo a Londra avevo nove anni e, crescendo, voltai le spalle con
decisione all’Iran e a tutto quanto era iraniano. Adesso mi rendo conto che
le cose che rimpiango – la perdita della mia lingua madre e della capacità di
leggere e comprendere i grandi poeti nei versi originali; la mia ignoranza dei
modi di dire, delle canzoni e delle danze persiane – non sono solo la
conseguenza dell’esilio, ma anche della distanza che si è creata tra gli e
genitori, dell’abisso spalancato tra noi, che ha separato la loro cultura
iraniana dalla nostra britannica d’adozione. Dalla loro parte, le poesie
recitate a memoria alle feste, le canzoni tradizionali cantate accanto agli
amici che suonavano il piano, le battute, e una scanzonata litania di prese in
giro in farsi. Dalla nostra, i Duran Duran e La banda dei cinque, la mia
passione per i pony, la musica pop. Quell’abisso ha inghiottito le suppliche
dei miei genitori perché parlassimo nella nostra lingua con i parenti, le
minacce di spedirci a una scuola di persiano e le innumerevoli preghiere di
non sottrarci ai loro amici e alle feste.
Non avevo idea del perché ri utassi l’Iran, sapevo solo di essere
arrabbiata. Rabbia e vergogna, un sentimento complesso, impossibile da
de nire: mi vergognavo della rivoluzione, della crisi degli ostaggi, del fatto
che eravamo stati costretti ad andarcene, dell’aspetto austero dell’ayatollah
Khomeini, della radicalità delle immagini e degli ideali della Repubblica
islamica. In qualche strano modo, mi vergognavo anche di stare in mezzo a
quegli inglesi compassati e di non essere una di loro. Cercavo di cancellare la
vergogna adattandomi alla mia nuova vita e ignorando l’Iran, come se
bastasse negarne l’esistenza con un semplice atto di volontà per poter
smettere di essere iraniana, per cessare di appartenere a un luogo che aveva
inferto al mio giovane cuore un colpo tanto devastante.
Ma il mio paese non si sarebbe fatto mettere da parte tanto facilmente.
Era sui nostri schermi, un collage di elementi familiari resi estranei solo
dalla loro giustapposizione: i platani del Pahlavi Boulevard di Teheran,
sfondo a una marcia di rivoluzionari; le auto americane, come quella che
avevamo noi, che invece di circolare erano in amme al bordo della
carreggiata. L’Iran era anche dentro di me, viveva nel nostro roseto, nelle
rumorose riunioni di famiglia e nelle notti dolci in cui avevo dormito sulla
terrazza del tetto della casa della nonna ad Abadan.
I ricordi e la nostalgia del mio paese uivano inesorabili nel mio cuore
nché un giorno la consapevolezza tornò in super cie, impossibile da
negare, e seppi che dovevo tornare.
Eppure mi ci vollero anni. Era facile resistere al richiamo dell’Iran
quando avevo a portata di mano le lusinghe del mondo occidentale. Alla
ne, mi ritrovai fuori dal consolato iraniano in una piazza silenziosa alle
spalle di Kensington High Street, intenta a sistemarmi in testa un foulard
con gesti irritati, mentre mio padre mi accompagnava per fare richiesta del
passaporto iraniano. Ero spaventata, persino dal tizio barbuto dietro lo
sportello, ma, contrariamente a quanto mi aspettavo, quegli esponenti del
governo rivoluzionario erano cortesi, non esagitati né arrabbiati, ma
sorridenti e pieni di ta’arof, complessa forma di cortesia persiana che stento
a decifrare da tutta una vita.
Bevendo un tè da Barkers mentre mio padre compilava la pila di
documenti, fui sopraffatta da due sensazioni gemelle, presto diventate in
Iran mie inseparabili compagne di viaggio: ansia e inadeguatezza. Ansia
perché i miei ultimi ricordi dell’Iran erano di strade piene colme di uomini
barbuti e arrabbiati che agitavano i pugni, gridavano e protestavano; di una
sete di sangue che ogni notte reclamava le vite dei nostri vicini.
Inadeguatezza perché nonostante la laurea in letteratura e una promettente
carriera da giornalista, non ero in grado di leggere né scrivere correttamente
in farsi, parlavo in modo esitante, con l’accento inglese. Nella mia lingua
madre sono praticamente analfabeta, una sensazione molto sgradevole per
un’intellettuale snob come me.
Un nuovo ritorno in Iran seguì allora quasi mio malgrado, e nalmente
un giorno mi ritrovai nuovamente ad armeggiare con il foulard mentre io e
mia madre partivamo per raggiungere il paese in cui ero nata, il paese dei
miei antenati. Avevo ventisette anni, e dall’ultima volta che ero stata in Iran
ne erano passati diciotto.
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