Liberi dal male – Il virus e l’infezione della democrazia – Ezio Mauro


SINTESI DEL LIBRO:
Come un fuoco artificiale che dopo l’esplosione lascia in cielo le
sue strisce fiammeggianti, il grafico si apre, nei dieci colori di un
arcobaleno triste. Il tracciato giallo della Cina è il più lungo di tutti,
partito com’è in largo anticipo, salito a livello 100 dopo meno di un
mese, per declinare dopo settanta giorni a quota 4. Canada e India
sono in ritardo, o forse protette, con due strisce ridotte al minimo. Il
segno rosso dell’Italia spara subito in verticale, sopravanza tutti, poi
intorno al venticinquesimo giorno rallenta e piega verso destra,
frenando vicino al numero 1000. Subito sotto inseguono il blu della
Francia, il viola della Gran Bretagna, poi distanziato il verde della
Germania, mentre di fianco s’impennano le scie di Stati Uniti e
Spagna, violente nella corsa verticale al record dei morti, lassù in
alto. Perché quei numeri – 100, 70, 4 e 1000 – segnano la
progressione delle vittime quotidiane nella pandemia, una mappa
dove il dolore rincorre l’orrore, mentre non si è ancora spento lo
spettacolo malinconico e disarmato, ma mondiale, dello stupore.
Abituati a esorcizzare la fine della vita in una superstizione
tecnologica di eternità invulnerabile, guardiamo la morte come un
evento insensato, incongrua nella moderna giurisdizione dei nuovi
mezzi onnipotenti che superano e sopravanzano ogni ostacolo, con
la promessa di spostare ogni volta più avanti la frontiera del
possibile. E adesso invece un agente patogeno sconosciuto ci
costringe a fare ogni giorno proprio il calcolo più elementare, basico
e fondamentale, il saldo tra chi vive e chi muore, colorandolo,
proiettandolo, disegnandolo. Cerchiamo la vera natura della calamità
nella statistica, convinti che nel grafico si nasconda il segreto della
sventura, mentre i numeri e i segni certificano soltanto la nostra
debolezza, rivelano la vulnerabilità del sistema che abbiamo
costruito e innalzato come una torre celeste, oggi attaccata dal virus
nelle sue fondamenta.
Il
Ogni diagramma, ormai ogni calcolo, è doppio, parla di lui e di noi.
saldo è la quantità della nostra paura quotidiana, diversa dalle
paure sparse sul nostro cammino ordinario, tutte incasellate dentro
specie conosciute, tutte riconoscibili e comunque già sperimentate,
dunque accettate nel libero gioco della società del rischio, potremmo
dire istituzionalizzate in una scomoda compatibilità.
No: qui il virus crea una paura che invece di stare dentro l’ordine
sociale lo trasforma, perché esce dai confini dell’ordinario, recupera
categorie del primitivo, scuote il deposito ancestrale, amputa il
domani. In questo senso la nuova paura è definitivamente
incompatibile e il virus è eccezionalmente fuori dal tempo, non solo
dalle
previsioni, dal calcolo delle aspettative, dal bilancio
rassicurante che implicitamente tracciamo fra i nostri sistemi di
difesa e le offese che possiamo ricevere. Unisce inaspettatamente
passato e presente, vuole cancellare il futuro. Interrompe la linearità
del progresso, o meglio separa i concetti di progresso e sviluppo,
mescola i piani culturali con cui leggiamo gli accadimenti, confonde il
calendario.
Tornano categorie primigenie, recuperate dall’angoscia, memorie
ataviche, suggestioni propiziatorie, un valore d’uso pratico del sacro
come protezione, consolazione, illusione miracolistica e, in parallelo,
s’incrina l’alleanza tra scienza, razionalità e libertà, che è una delle
basi della modernità, e nasce forse un pensiero della crisi, su cui si
aggroviglia la storia, incerta. Dove siamo? Il virus ha spalancato
l’epoca, recuperando le esperienze del passato, riportando in campo
i
suoi antenati e i suoi parenti. La peste dell’antichità, che viaggiava
con i soldati e tornava con le legioni romane vittoriose corrodendo
l’impero, il vaiolo e la poliomielite che hanno lasciato il segno già
nelle mummie egiziane, la bubbonica nel Trecento, ancora la peste
del Seicento raccontata da Manzoni, prima dei sei cicli del colera
nell’Ottocento: “Sia come sia entrò questo fante sventurato e
portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a
soldati alemanni; [...] appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo
spedale [...] il quarto giorno morì”. Poi la febbre gialla, la “russa” e le
influenze, con le loro mutazioni letali: la spagnola all’inizio del
Novecento con un numero di morti che oscilla tra i 50 e i 100 milioni,
l’asiatica alla fine degli anni cinquanta, la febbre di Hong Kong dieci
anni dopo, per arrivare alla febbre del contemporaneo, la Sars nel
2002, l’influenza suina nel 2009, Ebola nel 2014, e infine il Covid-19,
l’ultimo coronavirus.
Riprecipitiamo dunque dentro una catena epidemica che avevamo
dimenticato, come se la capacità di rigenerarsi dell’agente virale gli
consentisse ogni volta di replicare in nuove modalità la nostra
condanna, contrastando e superando i progressi scientifici e medici.
Siamo di nuovo qui, sembra rispondere il virus alla domanda
dell’individuo immemore, scaricandogli davanti gli antecedenti, in un
duello che rinnovandosi diventa eterno. E infatti siamo qui, sorpresi e
spodestati da questo attacco di portata mondiale che non ha
nemmeno un contropotere adeguato di contrasto, una governance
proporzionata, un’autorità dimensionata sull’emergenza globale.
Inabissandosi e riemergendo ogni volta in una nuova configurazione
il virus si rivela più duttile e flessibile delle forme umane di governo,
più capace di adattamento alle nuove esigenze del tempo e
dell’ambiente delle istituzioni politiche che abbiamo inventato. Il virus
è più veloce della democrazia, più capace di noi a comandare. A
farsi strada. A conquistare terreno. Soprattutto a sovvertire. È un
soggetto rivoluzionario.
Tutto questo è possibile perché il virus viene da fuori, attacca il
sistema sentendosene estraneo, indifferente al calcolo costi-benefici
della razionalità, al concetto di bene e male. Cieco e sordo a ogni
condizionamento, ha un’unica missione: avanzare, conquistare,
colpire per sopravvivere. Noi, dentro il presunto ordine del nostro
mondo, possiamo solo cercare di spiarlo, ingannarlo, depistarlo per
condurlo nel vuoto dove non può resistere. Parliamo di cellule,
microrganismi ed esseri viventi che lottano nel medesimo ambiente.
Ma a questo punto è evidente che lui, pur entrando in noi, abita in
un’altra dimensione. I grafici della pandemia non sono altro che il
codice di traduzione dalla sua espressione alla nostra lingua, un
modo di renderlo intellegibile, di riuscire a leggerlo e decifrarlo
secondo i nostri criteri fatti di misura, quantità e qualità. Perché il
virus ci costringe a essere non solo vittime, ma qualcosa di più: suoi
spettatori. E infatti aspettiamo le cifre del suo procedere,
consultiamo l’incremento della sua presenza, calcoliamo le
percentuali dei suoi attacchi, leggiamo le curve che disegna, in un
rito abituale di cui siamo diventati esperti, come se fosse normale
tenere quotidianamente la contabilità del male, misurare i contagiati
coi guariti, confrontare gli isolati coi ricoverati: e infine sottrarre ogni
volta i morti dai vivi.
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