L’ estranea – Patrick Mcgrath


SINTESI DEL LIBRO:
Mi chiamo Constance Klein. La
storia della mia vita inizia il giorno
in cui ho sposato un inglese di nome
Sidney Klein e ho detto per sempre
addio a Ravenswood e al babbo e a
tutto quello che era successo prima.
Ho un marito adesso, pensavo, un
nuovo babbo. Volevo diventare
padrona di me stessa. Volevo, oh,
volevo tutto. Mi sentivo rinata.
Scomparsa per sempre la voce di
sprezzante disapprovazione, quella
voce querula e irritante, inamovibile
nella sua convinzione che io fossi
priva di valore, anzi, peggio, non
necessaria. Sidney non pensava che
io fossi non necessaria, ed era un
uomo che conosceva il mondo e
recitava passi di Shakespeare a
memoria. Diceva di amarmi e
quando gli chiedevo perché mi
rispondeva chiedi piuttosto perché il
cielo è azzurro. Era cambiato tutto.
Se prima percorrevo le strade di
New York col passo diffidente di
una straniera, adesso esultavo in
mezzo a tutte le cose che fino a poco
prima mi turbavano: la folla, la
velocità, il rumore, le voci.
Gli altri si accorgevano del mio
cambiamento.
La
direttrice
editoriale indovinò subito il mio
segreto.
Mi disse che ero
innamorata. Tentai di negarlo,
perché non mi era venuto in mente
che stesse succedendo, ma lei
insistette. Disse che sapeva bene
com’era e io le chiesi di cosa
parlava. Di te, rispose, e si allontanò
con un sorriso imperscrutabile sulle
labbra. Un’altra volta mi chiese se
trovavo soddisfazione nel mio
lavoro e io le risposi di sì. Tientelo
stretto, allora, disse. Forse, pensai,
secondo lei non potevo amare
contemporaneamente Sidney Klein e
il mio lavoro, ma le assicurai che ci
riuscivo benissimo. Ellen Taussig
era capace di fare un intero discorso
muovendo appena un sopracciglio.
Ma è vero, gridai sottovoce. Perché
non doveva essere possibile? Molti
sono i chiamati, disse lei, e mi scrutò
al di sopra degli occhiali. È un
sintomo rivelatore di quel che
provavo allora il fatto che la mia
sicurezza non fosse scossa neppure
dal notevole scetticismo di quel
sopracciglio ben disegnato.
Poi arrivarono le nozze.
Fu solo in seguito, dopo il pranzo
al ristorante, con mia sorella Iris che
si rendeva ridicola e il babbo così
arrabbiato, che mi domandai cosa
credevo di fare. Chi credevo di
essere, una persona perbene? Il
nuovo mondo si accartocciò come
una palla di carta gettata nel
caminetto e io rimasi con qualche
frammento bruciacchiato e un po’ di
cenere. Sminuita e umiliata, pensai
alla madre di Sidney, una vecchia
pazza contorta dai reumatismi che si
era presentata al nostro matrimonio
tutta
vestita di nero. Io ero
rattrappita come lei. Ero la madre di
Sidney. Cercai di spiegargli quello
che era successo, ma non volle
ascoltarmi. Non coincideva con
l’idea che si era fatto di me. Per la
prima volta lo vidi chiaramente, e
vedendolo capii quant’ero stata
sciocca a pensare di poter credere
per un solo istante di essere amata...
L’appartamento di Sidney era
grande, scuro e pieno di libri. Non
mi piaceva. Mi intimidiva. Tutto
sembrava dirmi che lì viveva una
persona intelligente, una persona
perbene. Avevo la sensazione di
poter essere smascherata in ogni
momento come intrusa, e scacciata.
Era al piano alto di un palazzo
d’anteguerra nell’Upper West Side e
di notte era sempre molto rumoroso.
Tutto stava cambiando, mi diceva
Sidney, perché i vecchi abitanti del
quartiere si trasferivano in periferia
e al loro posto arrivavano i poveri, i
neri e i portoricani, gli immigrati, i
nuovi arrivati. C’erano voci rozze,
dure, straniere, per strada, e io avevo
l’inquietante sensazione di vivere
contemporaneamente in due mondi
differenti, e di non appartenere a
nessuno dei due.
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