Le due vite di Lucrezia Borgia- La cattiva ragazza che andò in paradiso – Lia Celi


SINTESI DEL LIBRO:
La storiografia moderna ha sfatato quasi tutti i luoghi comuni della
storia: il Medioevo non era poi così oscurantista, la Rivoluzione
francese in realtà ha ammazzato più popolani che aristocratici,
Abraham Lincoln era abolizionista ma anche razzista e avrebbe
voluto spedire tutti i neri in Africa, come un Salvini qualunque. Ma
per quanto riguarda la corrusca e corrotta Roma del Rinascimento, il
fact checking degli storici non ha ridimensionato nulla: è veramente
corrusca e corrotta (e meno male, se no questo libro sarebbe
mortalmente noioso). Astuzia, denaro e amicizie contano molto più
delle virtù teologali, intrighi e congiure sono all’ordine del giorno, e
quando i pontefici non sono trafficoni o lussuriosi come Alessandro
VI o Pio II, sono crudeli e alcolisti come Niccolò V, spesso così
sbronzo da non riuscire a firmare i documenti (di lui si dirà che
durante il suo regno a Roma scorreva il sangue, mentre non si
trovava più una goccia di vino).
Quel che resta della Roma dei cesari viene spogliato per costruire
la Roma dei papi. I nuovi cantieri diretti dalle archistar dell’epoca
confinano con zone in pieno degrado, come il Campidoglio,
diroccato e assediato da letame e spazzatura (lo racconta l’umanista
Poggio Bracciolini, ogni riferimento all’attualità è puramente
casuale).
Il
nepotismo non lo hanno inventato i papi del Quattrocento:
inaugurato e anzi raccomandato in età alto medievale (la
sollecitudine verso i parenti non è forse un dovere per il buon
cristiano?), era diventato normalità durante il periodo avignonese,
quando ogni pontefice, specie se anziano e cagionevole, nominava
un “cardinal nipote”, spesso in realtà un figlio illegittimo, come
sostegno nelle infermità della vecchiaia e interfaccia con il resto
della famiglia nelle piccole incombenze materiali e quotidiane che un
sommo pontefice non poteva certo peritarsi di seguire. Qualcuno
aveva già esagerato, come Clemente VI, che aveva creato cardinali
quattro nipoti, più un quinto maresciallo della Chiesa. Ma dalla
seconda metà del XV secolo la pratica arriverà a vette mai viste, a
partire da Martino V, un Colonna, che distribuisce una vera pioggia
di cariche e feudi ai suoi numerosi parenti. Non solo per familismo
amorale, ma anche per mettere al sicuro il suo potere in un
momento delicatissimo per la Chiesa, grazie a una solida rete di
alleanze basate sul sangue.
Il discorso vale, in scala ridotta, anche per i cardinali. Nell’infido e
pericoloso ambiente romano i principi della Chiesa sono obbligati a
circondarsi di persone fidate. E se sono stranieri, sprovvisti di
familiari sul posto, devono portarseli da casa. Quando Alfonso si
stabilisce nel suo palazzo presso il Colosseo, vi insedia una vera e
propria colonia di amici e parenti che i romani chiamano con
disprezzo “i catalani”. Vista l’origine valenciana della cricca, i
corsivisti di oggi la battezzerebbero immediatamente “la paella
magica”. Gli ingredienti principali sono i nipoti: Roderic, Pedro Luis e
il
loro cugino Luis Juan de Milá, cui lo zio offrirà la migliore
formazione per far carriera nell’amministrazione ecclesiastica, cioè
gli studi di retorica a Roma e poi di giurisprudenza a Bologna. Il resto
lo impareranno sul campo: cresciuti nella sede del più grande
mercato delle vacche di tutta la Spagna, i tre giovanotti non ci
metteranno molto a capire come funzionano le cose nella Santa
Sede.
Il colpo d’ala per l’ascesa dei Borgia arriva nel 1455. Roderic è
ancora alle prese con pandette e digesto, quando zio Alfonso vince il
primo premio alla lotteria del Vaticano: il conclave seguito alla morte
di Niccolò V elegge a sorpresa proprio lui, qui sibi nomen posuit
Callisto III, non si sa se in onore del sedicesimo papa di Roma, un
ex
schiavo
bancarottiere
senza
troppi
scrupoli,
o
del
centosessantaduesimo, il borgognone cofirmatario insieme a Enrico
V del Concordato di Worms che mise fine alla lotta per le investiture.
Callisto III Borgia è il tipico “papa straniero”: i suoi unici meriti sono di
non essere né un Orsini né un Colonna (i due clan la cui rivalità
insanguina Roma da almeno due secoli), di non avere legami con
nessun potentato italiano e soprattutto di avere settantasette anni
suonati e molti acciacchi. Insomma, è un pontefice che non impegna
e che, nei disegni dei padri conclavisti, permetterà alle varie fazioni
di rimandare di qualche anno la scelta di un capo efficiente.
Efficiente, però, Callisto lo è, soprattutto nel trovare buoni posti per
i
suoi nipoti. Appena seduto sul soglio pontificio nomina il laureando
Roderic, che si è ripulito il nome dalla polvere valenciana e ora si fa
chiamare Rodrigo Borgia, prima protonotario apostolico e poi
cardinale diacono della basilica di San Nicola in Carcere a Roma.
Dopo la laurea, diventa cardinale diacono di Santa Maria in Via Lata
e consigliere del papa in materia religiosa. È evidente che allo zio il
ragazzo piace, anche se è il suo esatto opposto: alto, prestante,
sensibilissimo a tutti i piaceri, dotato di una parlantina che seduce
uomini e donne e da cui traspare una cultura vasta e profonda.
Callisto invece è austero ai confini della tirchieria, del tutto
indifferente all’arte e allo studio (a parte quello del diritto canonico,
che conosce a memoria) e, caso quasi unico fra gli ecclesiastici del
tempo, praticamente senza vizi, a parte, ovviamente, quello di
piazzare ovunque i figli delle sue sorelle. Il fratello di Rodrigo, Pedro
Luis, a poco più di vent’anni diventa capitano generale della Chiesa,
duca di Spoleto, governatore di Castel Sant’Angelo, governatore di
Terni, Narni, Todi, Rieti, Orvieto, della provincia del Patrimonio e
prefetto di Roma: in pratica, è l’uomo forte cui Callisto affida la
politica interna. A Luis Juan de Milá, un birichino che malgrado la
tonaca ha già all’attivo un figlio illegittimo, regala la legazione di
Bologna e, come portafortuna, il suo primo titolo cardinalizio, quello
dei Santi Quattro Coronati.
Questi favoritismi non rendono Callisto molto popolare fra i
romani: passi se certe cose le fa un Colonna, ma uno straniero
dovrebbe andarci più cauto. Il pontefice, però, all’epoca non ha
tempo per queste piccole beghe locali. Due anni prima della sua
elezione, Costantinopoli era caduta in mano ai turchi, e nelle anziane
vene di Alfonso ribolliva ancora il sangue dei «matamoros» della
Reconquista. Sfortunatamente i sovrani europei non hanno
altrettanta smania di matàr los moros, anzi, stati come Venezia ci
fanno ancora ottimi affari. L’appello di Callisto alla crociata contro il
sultano ottiene lo stesso risultato degli appelli alla pace dei papi di
oggi: zero spaccato. Ma il vecchietto fa sul serio. Congela tutti i
progetti architettonici dei suoi predecessori per spostare risorse sugli
armamenti anti-infedeli, vende i suoi oggetti preziosi (e anche
parecchi non suoi, come le rilegature d’argento dei libri della
Biblioteca Vaticana) per inviare aiuti economici e materiali a
Giovanni Hunyadi e Giorgio Castriota Scanderbeg, gli unici che
combattono davvero i turchi. Sono anche i primi non-Borja che
Callisto beneficia in ottant’anni di vita, ed è probabilmente questo
choc, insieme a un tremendo attacco di gotta, a ucciderlo, il 6 agosto
1458.
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