La venere di Tashken – Leonardo Fredduzzi


SINTESI DEL LIBRO:
All’interno dell’appartamento 279, al ventiquattresimo piano del
grattacielo che sorgeva alla confluenza dei fiumi Moscova e Jauza,
Aleksej Lebedev saltellava alla ricerca dei peluche che avrebbe
portato con sé.
Il padre Valerij gli aveva promesso che nel pomeriggio sarebbero
andati al Detskij Mir, il più grande negozio di giocattoli di Mosca.
“Grande quanto?”
“Grande così” gli aveva detto il padre, allargando le braccia in
modo teatrale.
Alle quattro del pomeriggio la porta di casa si è aperta e Aleksej è
corso ad abbracciare il padre. Si è aggrappato prima a una gamba
dell’uomo e poi lo ha guardato dritto negli occhi: “Mi prendi in
braccio?”
Durante il decollo, il bambino ha percepito l’odore del dopobarba e
la pelle ruvida e profumata del padre. È rimasto in orbita in salotto
per un tempo indefinito, che gli ha permesso di scorrazzare per la
Via Lattea, toccare il Sole e infilarsi tra gli anelli di Saturno.
Dieci minuti dopo, un messaggio radio lo ha fatto atterrare sul
tappeto del soggiorno, tra il frastuono dei retrorazzi e l’acclamazione
della folla. L’astro nascente della cosmonautica sovietica era tornato
a casa sano e salvo, da un viaggio interstellare. Agli ordini
dell’ufficiale di grado superiore, Aleksej ha quindi indossato alla
svelta la sua giacca spaziale e, mentre ascoltava la nonna impartire
le ultime disposizioni di buon comportamento, si è infilato una
manciata di soldatini nelle tasche e correndo è uscito di casa.
Non appena si è spalancato il portone principale, ha dato la mano
al padre e insieme hanno attraversato il cortile antistante, un
boschetto di aiuole e pioppi, in direzione del parcheggio. A questo
punto, Valerij Lebedev è salito sull’auto messa a disposizione
dall’Unione degli scrittori e alla sua destra si è seduto il piccolo
Aleksej,
in
qualità
di
comandante
delle
musiche
e
copilota.leggenditaly.com Durante il tragitto, il bambino si è divertito
ad aprire e chiudere il cassetto portaoggetti, ad alzare e abbassare il
finestrino, a ruotare il parasole:
“Papà, superiamo quella macchina!”
“Quella bianca?”
“Sì, quella lì.”
Valerij Lebedev ha acceso la radio, sintonizzandola sulle
frequenze di “Incontro con la canzone” di Viktor Tatarskij. Ma dopo
aver ascoltato la trasmissione per qualche minuto, Aleksej ha scosso
la testa:
“Papà non mi piace, possiamo cambiare?”
“Va bene. Ora attento Aleksej: metti la terza. Sposta la leva del
cambio in avanti.”
“Così?”
“Bene. Tra qualche mese saprai guidare.”
L’auto, diretta verso il centro, ha attraversato la Moscova e ha
svoltato a destra, poco prima delle mura del Cremlino. Quindi padre
e figlio hanno parcheggiato dietro ulica Kirova e si sono diretti a piedi
verso il negozio di giocattoli. Non appena usciti dall’auto, Aleksej ha
iniziato a trascinare a forza il padre. Voleva superare tutti: gli altri
bambini con i genitori, gli anziani che facevano un centimetro all’ora
e le mamme con le carrozzine. Doveva arrivare per primo.
“È lontano il negozio?” ha chiesto con impazienza al padre.
“No, è a cento metri.”
“Andiamo papà. Perché siamo così lenti? E se chiude e non ci
fanno entrare?”
“Non chiude.”
“E se gli altri bambini finiscono tutti i giocattoli?”
“Impossibile.”
Ogni domanda è svanita davanti alle imponenti vetrine del Detskij
Mir. Un leone ruggiva fiero su un ripiano in alto a destra, un gruppo
di biciclette fiammanti era pronto a partire, un aeroplano volava
sorretto da un filo trasparente, su un cielo di sfondo.
“Ma qui ci sono mille milioni di giocattoli!”
E poi scimmie, automobili, trenini, palloni, completi per la scuola,
zebre, elefanti, e una giostra vera, che si intravedeva da fuori e
campeggiava al centro del salone.
Aleksej si è lanciato dentro al negozio, ha guardato estasiato i
modellini di treni e aerei in esposizione dentro le teche di vetro e
metallo e ha alzato la testa fino al soffitto, per capire dove finiva il
collo di una giraffa di legno. Dopo un giro di perlustrazione, ha scelto
quello che desiderava da molto tempo, il peluche gigante di
Čeburaška. L’orsetto dalle grandi orecchie che in altezza pareggiava
Aleksej e che il bambino ha proclamato suo migliore amico, non
appena uscito dal negozio.
Nel tardo pomeriggio Valerij Lebedev ha riaccompagnato il figlio a
casa e alle sei e mezza circa è arrivato al Teatro Taganka. È entrato
prima in biglietteria a salutare le due signore, che hanno risposto con
un cenno dall’altra parte del vetro. Poi, nel foyer del teatro, ha
scambiato qualche parola con le persone che ha incrociato. È
entrato in sala ed è sceso nel sottopalco per parlare con Nikita
Abramovič, lo scenografo. Lo spettacolo è iniziato, come di
consueto, alle diciannove in punto.
In un silenzio turbato solo dal ticchettio della macchina da scrivere,
una farfalla si posò sul lampadario sospeso sopra la scrivania del
commissario Kovalenko.
Nel suo inappuntabile completo grigio, Valerij Lebedev taceva in
attesa di un’indicazione e intanto indugiava con lo sguardo sulla
mappa della città, appesa alla parete di fronte.
Kovalenko scambiò un cenno d’intesa con Zajcev.
“Le chiedo di riferirmi la serata di ieri, cercando di non tralasciare
nessun dettaglio riguardo ad Anastasija Timokina.”
“Va bene, commissario. Come le dicevo sono arrivato in teatro
attorno alle sei e mezza. Dopo aver fatto un giro in biglietteria e nel
sottopalco, sono passato a salutare gli attori nei loro camerini. Di
solito non si parla molto. Anastasija, come tutti gli altri, era nel suo
camerino a prepararsi.”
“A che ora è andato a salutare gli attori?”
“Diciamo alle sette meno dieci. Alle sette lo spettacolo è andato in
scena regolarmente e si è concluso intorno alle otto e quaranta.
C’era anche lei sul palco, naturalmente: ci sono centinaia di
testimoni. Ho incrociato a fine spettacolo tutti gli attori dietro le
quinte, e Anastasija era lì. Mentre loro tornavano verso i camerini io
sono andato verso il palco, nella direzione opposta. È una cosa che
faccio sempre: dietro il sipario ascolto i commenti degli ultimi
spettatori che si attardano a lasciare la sala. A volte riesco a carpire
solo frammenti di conversazione, qualche apprezzamento per un
attore o una scena.”
Lebedev si passò una mano sulla cravatta per farla aderire
perfettamente alla camicia bianca. Il commissario di tanto in tanto
beveva un sorso di birra.
“E poi che cosa ha fatto?”
“Mi hanno chiamato dal caffè del teatro per un’intervista. Volodja
Miller, il critico della “Literaturnaja Gazeta”, mi aspettava lì. Abbiamo
fatto quattro chiacchiere davanti a un calice di vino e a un piatto di
crostini con burro e acciughe. Era interessato ad alcuni aspetti della
regia e alla riduzione del testo originale, che avevo curato io. Intanto
gli attori ricevevano messaggi d’auguri e fiori nei camerini, lo
spettacolo si era chiuso tra gli applausi. Dopo quella breve intervista,
saranno state le nove e tre quarti, sono andato con l’amministratore,
il signor Sobolev, in biglietteria. Abbiamo ritirato l’incasso e l’abbiamo
chiuso in cassaforte, nel mio ufficio. Sobolev avrebbe aggiornato i
conti l’indomani. A fine serata ci siamo ritrovati tutti insieme al caffè
del teatro per il brindisi finale: e anche lì Anastasija c’era.”
“A che ora vi siete incontrati per brindare?”
Kovalenko concluse la domanda soffiando in alto una nuvola di
fumo. La punta incandescente di una Novost’ spiccò nella penombra
dell’ufficio.
“Alle dieci, più o meno. Eravamo tutti lì e siamo rimasti insieme
per una ventina di minuti: è stata l’ultima volta che l’ho vista. Dopo
sono uscito dal Taganka per tornare a casa.”
“A che ora è arrivato?”
“Intorno alle undici” rispose Lebedev.
“Sono meno di due chilometri.”
“Sono tornato a piedi, commissario. Ogni tanto lascio l’auto a casa
e mi godo Mosca. Sono passato davanti al cinema Illusion, che è
all’interno del complesso residenziale in cui abito. L’inserviente stava
chiudendo e mi ha salutato. Se non sbaglio si chiama Viktor. Lo
conosco di vista, ci vado spesso... Poi sono entrato nell’androne, ho
superato la signora Ostapišina, che si era addormentata con le mani
posate in grembo: reggeva ancora i ferri con cui stava facendo un
maglione per il figlio. Sono salito al ventiquattresimo piano e ho
aperto la porta del mio appartamento, cercando di fare meno rumore
possibile.
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