La terza Roma – Ryszard Kapuściński


SINTESI DEL LIBRO:
Primavera 1989. Leggendo le notizie in arrivo da Mosca mi
dicevo che forse avrei fatto bene ad andarci. Anche da altre
parti mi giungevano spinte in quella direzione, nel senso che
la Russia, quando decide di svegliarsi, comincia a
interessare un po’ tutti. Il momento era venuto, la gente era
pervasa dalla curiosità e dall’aspettativa di qualcosa di
straordinario. Allora, alla fine degli anni ottanta, si sentiva
che il mondo stava entrando in una fase di grandi
cambiamenti, di trasformazioni così profonde e radicali da
non lasciar fuori nessuno stato o paese, e quindi neppure
l’ultimo Impero sulla terra: l’Unione Sovietica.
Nel mondo cominciava a instaurarsi un clima sempre più
favorevole alla democrazia e alla libertà. In tutti i continenti
le dittature cadevano una dopo l’altra: quella di Obote in
Uganda, di Marcos nelle Filippine, di Pinochet in Cile.
Nell’America latina i dispotici regimi militari perdevano il
potere in favore di governi civili più moderati, mentre in
Africa i sistemi perlopiù monopartitici (quasi sempre
grotteschi e corrotti) crollavano e uscivano dalla scena
politica.
Sullo sfondo del nuovo e promettente panorama mondiale
il sistema staliniano-brežneviano dell’Urss appariva sempre
più un anacronistico relitto deteriorato e inefficiente. Un
anacronismo, sì, ma pur sempre potente e minaccioso. La
crisi attraversata dall’Impero veniva seguita nel mondo con
attenzione ma anche con inquietudine: sapevamo tutti che si
trattava di una potenza dotata di armi di distruzione di
massa, capace di far saltare in aria il pianeta. Ma, in questo
caso, quel cupo e minaccioso scenario non riusciva a
oscurare la soddisfazione e il generale sollievo che il
comunismo stesse finendo e che si trattasse di un fatto
definitivo e irrevocabile.
I tedeschi dicono Zeitgeist, lo spirito del tempo. C’è un
momento, quanto mai affascinante, promettente e fecondo,
in cui lo spirito del tempo, finora sonnecchiante, spento e
apatico come un uccello bagnato sul ramo, improvvisamente,
senza una ragione apparente (o perlomeno senza una
ragione spiegabile in modo puramente razionale) spicca un
volo ardito e gioioso. Il fruscio di quel volo arriva a tutti.
Sveglia la nostra immaginazione, ci dà energia: cominciamo
ad agire.
“Se fosse possibile,” mi dico nel 1989, “mi piacerebbe
percorrere tutta l’Unione Sovietica attraverso le quindici
repubbliche federate (non certo tutte le quarantaquattro
repubbliche, con i distretti e le regioni autonome, per
visitare i quali non mi basterebbe la vita). I punti più
avanzati del mio viaggio sarebbero:
a occidente, la frontiera polacca di Brest;
a oriente, il Pacifico (Vladivostok, la Kamčatka o
Magadan);
a nord, Vorkuta o Novaja Zemlja;
a sud, Astara (frontiera con l’Iran) o Termez (frontiera con
l’Afghanistan).”
Una fetta di mondo. La superficie dell’Impero conta infatti
ventidue milioni di chilometri quadrati e le sue frontiere
terrestri, più lunghe dell’equatore, corrono per
quarantaduemila chilometri.
Considerato che, ovunque fosse stato tecnicamente
possibile, tali frontiere erano state ed erano tuttora chiuse
da fitte barriere di filo spinato (le avevo viste alle frontiere
con la Polonia, con la Cina e con l’Iran) e che a causa del
clima micidiale il filo spinato si deteriorava e andava
sostituito di frequente per centinaia, anzi per migliaia di
chilometri, c’era da supporre che buona parte dell’industria
metallurgica sovietica fosse destinata alla produzione di filo
spinato.
Ma non c’erano soltanto le frontiere. Quante migliaia di
chilometri di filo spinato furono usate per recintare
l’Arcipelago Gulag, tutte quelle centinaia di campi, di punti
di transito e di prigioni sparpagliati sull’intero territorio
dell’Impero? E quante altre migliaia ce ne saranno volute
per recingere i poligoni di tiro, i depositi dei carri armati, le
zone atomiche? E le caserme? E i magazzini?
Si moltiplichi il tutto per gli anni di vita del potere
sovietico e risulterà chiaro come mai nei negozi di Smolénsk
o di Omsk sia impossibile comprare una zappa, un martello,
per non parlare di un coltello e di un cucchiaino: la materia
prima per quel tipo di cose è sempre mancata, se ne andava
tutta in filo spinato. Ma non basta. Tutte quelle tonnellate di
filo spinato venivano trasportate per nave, per ferrovia, per
elicottero, a dorso di cammello, su slitte trainate dai cani
fino negli angoli più remoti e irraggiungibili dell’Impero, poi
scaricate, srotolate, tagliate, e messe in opera. È facile
immaginare le continue richieste telefoniche, telegrafiche,
epistolari di chi comandava le guardie di frontiera,
capeggiava i lager e dirigeva le prigioni per ottenere nuove
tonnellate di filo spinato, la loro premura di farsene una
riserva nel caso che i magazzini centrali ne restassero
sprovvisti. D’altra parte è pure facile immaginare le migliaia
di commissioni e di squadre di controllo sparpagliate per
tutto l’Impero a verificare se tutto sia recintato a dovere, se
gli sbarramenti siano sufficientemente alti e fitti, annodati e
intrecciati con la minuzia necessaria a non lasciar passare
nemmeno un topo. Facile immaginare anche le telefonate da
Mosca ai sottoposti delle varie zone, telefonate vibranti di
continuo e vigile zelo, espresso nella domanda: “Siete
recintati come si deve?”. Per anni e anni, invece di costruirsi
case e ospedali, invece di riparare le fognature e gli impianti
elettrici perennemente scassati, la gente (per fortuna non
tutta) non ha fatto altro che occuparsi della recinzione
interna ed esterna, locale e nazionale del suo Impero.
L’idea del grande viaggio mi venne in mente leggendo le
notizie sulla perestrojka: provenivano quasi tutte da Mosca.
Anche quando si trattava di avvenimenti in località
lontanissime come Chabarovsk, le notizie giungevano
ugualmente da Mosca. La mia anima di reporter si ribellava:
in quei momenti avrei voluto precipitarmi a Chabarovsk e
vedere di persona quello che succedeva. Tentazione tanto
più forte in quanto, conoscendo vagamente l’Impero, sapevo
come Mosca differisse dal resto del paese (non in tutto, a
dire il vero), e come le immense distese di quella potenza
rappresentassero una sconfinata terra incognita (incognita
peraltro non solo a noi ma anche agli stessi moscoviti).
Ma subito venivo assalito dai dubbi. Avevo veramente
ragione? Avevo appena ricevuto un libro relativamente
recente, in quanto uscito all’inizio del 1989, scritto dal
grande storico Natan Ejdelman: La rivoluzione dall’alto in
Russia. L’autore vedeva la perestrojka come una nuova
svolta della storia russa e faceva notare come nel paese i
grandi eventi cruciali, le rivoluzioni, gli sconvolgimenti e le
crisi, fossero sempre avvenuti per volontà dello zar, del
gensek,1 del Cremlino (o di Pietroburgo). L’energia del
popolo russo, diceva Ejdelman, era sempre esplosa non nel
prendere iniziative autonome, dal basso, ma nell’eseguire la
volontà del potere superiore.
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