La strada per Roma – Paolo Volponi


SINTESI DEL LIBRO:
L’uva esposta nella vetrina del negozietto della Pennabianca, il
piú povero di Urbino, era già appassita e da qualche giorno
abbandonata anche dalle vespe. Ormai per la strada di Santa Lucia
veniva una tramontana bagnata, con un’ala salina sopra i tetti e i
cornicioni, che rinfrescava la luce vecchia e ammorbidiva la polvere
lasciata dall’estate. La luce restava anche dopo il tramonto, perduta
tra i vertici dei tetti e cadeva solo, ormai nella notte, con l’ultimo
stormo dei piccioni. Sotto, la strada cambiava per la seconda volta,
con il buio che spalancava gli androni e le bocche dei vicoli e
portava avanti i portoni e la corte dei frati. L’ultima lampadina che
s’accendeva, mentre tutto dai frati sarebbe rimasto al buio, era
quella del negozietto.
A quell’ora passava Guido, dopo aver chiuso i libri sul suo
tavolino, chiusa la finestra tra i tetti verso il mare di Cattolica, scese
le scale, chiusa con un colpo la porta di casa. Sulla strada un
sollievo, e l’aria fresca dalle volte di Sant’Andrea, dalle fontane di cui
il vento spandeva il filo. Guido guardava casa sua, le finestre una
per una come una faccia, e si liberava di tutte le stanze che erano
dietro, amandole come in un ricordo avventuroso e indulgente; ferme
e fatte come sempre, ma con un altro respiro e di diverso odore. In
quell’attimo ricostruiva il passaggio dalle stanze all’ingresso, alla
grande sala da pranzo, fino alla porta segreta nella tappezzeria che
portava nella sua camera. I fiori di carta, uno a fianco dell’altro, e il
senso di vertigine che dava la loro prospettiva, di caduta nel vuoto;
la maniglia, lo spigolo sottile di noce della porta, lo spiraglio e, sotto,
le mattonelle del pavimento dal suono ben diverso dei mattoni della
sala. Entrato e ricevuta sul braccio la vestaglia appesa dietro la
porta, la prima cosa è la finestra. La finestra è grande al centro e la
sua luce divide la stanza; da una parte il letto, la cassa in fondo, i
due quadri religiosi e la fotografia della madre; dall’altra il tavolino,
l’armadio e lo scaffaletto dei libri. Sul tavolo i libri del giorno, il
necessario per scrivere, gli appunti e il manoscritto della tesi.
Anche quella sera Guido, appena fuori di casa, si riscaldava della
sua presenza che lasciava in casa; si commuoveva e abbracciava
se stesso; si assolveva per non essere riuscito a studiate fino al
punto prestabilito. Cancellava un’altra giornata ansiosa, la sua
insoddisfazione, le pause davanti alla finestra o sul libro aperto. Le
pause, ogni volta che cantava Elena o che per la casa entrava o
usciva; quelle pause che lo allontanavano da se stesso, che lo
rapivano anche fuori del paesaggio di colline e poggi, con qualche
albero in cima che spingeva ancora piú lontano, che rilanciava una
curva per il cielo, all’infinito curve come all’infinito coppi sui tetti di
Urbino, dalla parte di Lavagine, sotto la sua finestra. Nella strada
Guido pensava che avrebbe studiato dopo cena, che in quel
momento era libero e che poteva avviarsi.
Passava davanti al negozietto della Pennabianca, mentre andava
verso la piazza, con i guanti infilati e annodata la cintura del
soprabito, e guardò l’uva appassita; ripensò come tutte le sere da
circa un mese: «Quando l’uva della Pennabianca sarà secca, il
professore mi avrà risposto con un giudizio sulla tesi. Quando l’uva
non ci sarà piú io saprò quello che dovrà succedere».
Riprese la marcia con il timore della risposta, ma anche consolato
della presenza in vetrina del cestino dell’uva. La Pennabianca era
dietro il banco e non si sarebbe mossa in quel momento per andare
a togliere quel cestino. Arrivò davanti alla farmacia dello zio materno,
aprí la porta a vetri e come sempre mise un attimo la testa dentro
per salutare.
Da quel punto della strada si potevano vedere le luci del negozio
di suo padre. Guido non girò la testa, ma mentalmente guardò quelle
luci e le loro sfumature tra i telai della porta sino al selciato, al
biancore degli scalini di pietra. Si voltò solo quando fu sicuro di non
scorgere di fronte la figura del padre: aspettò che in mezzo
apparisse l’ombra dell’uomo che gli stava sempre accanto, sempre
pronto a seguirlo, a rispondergli come a tacere. Allora le luci erano
già attenuate e non avevano piú quella crudezza che per tanti anni lo
aveva torturato. Era la luce piú forte della città quella del negozio di
suo padre; una macchia fredda, accanita, che lo sorprendeva ogni
volta, come se l’arrestasse nel momento di compiere una mancanza.
Ripresa la semioscurità della strada, allungò il passo perché già
vedeva, sotto il loggiato piú corto della piazza, la figura di Ettore.
Mentre si avvicinava all’amico, Guido lo guardava e pensava: «È un
ragazzo; siamo ancora giovani, siamo ancora in tempo. Ventidue
anni, abbiamo ancora tre anni davanti».
Guido era torturato da un senso d’irrequietezza, senza un solo
tratto fermo, che cominciava nel momento in cui sapeva di non
essere piú un ragazzo. Ricordava gli anni del trapasso al liceo, gli
abiti smessi, i giuochi, le compagnie folte, tutte le prove che aveva
superato. Soprattutto gli sforzi di stomaco provati ai discorsi osceni
dei piú grandi. Aver superato lo stimolo a vomitare era una delle
prove piú convincenti della nuova età; adesso sarebbe dovuto
riuscire a fare discorsi d’amore senza crudeltà.
Si avvicinò all’amico e lo salutò. Ettore gli domandò: – Ti ha scritto
il professore?– No, – rispose, – e spero che non mi arrivi piú la lettera in questa
settimana.
I
due amici si accesero le sigarette e cominciarono la
passeggiata. Il corso e il loggiato che lo affiancava erano pieni di
gioventú che andava a spasso. Fra tutti, a gruppi, a coppie, in fila,
non c’era in quella parte della città uno che avesse piú di venticinque
anni. Erano tutti studenti, appena all’inizio dell’anno scolastico,
allegri, con i vestiti nuovi e con i vecchi e nuovi compagni. La nebbia
circolava fra di loro trasmettendo l’intesa e se ne illuminava.
Avevano, tutti i ragazzi, impermeabili o cappotti, ai primi di
novembre; le ragazze soprabiti e maglie. Tutti arrivavano con il giro
fino ai torrioni sulle mura, dove la notte e il vento erano soli.
Guido ed Ettore si diressero verso il corso sapendo che a metà
del loggiato si sarebbe unito a loro Alberto.
Guido disse: – Non ho voglia d’imbarcare Alberto, stasera. Se no
ricomincia con i suoi discorsi d’amore e ci chiede dieci volte se lui
può fidanzarsi con una studentessa.
Ma quando furono all’altezza del caffè frequentato da Alberto,
Guido si fermò e si rivolse verso le colonne del portico: – Cammina,– disse. – Avanti, Alberto, racconta come ti va –. La sua decisione
non aveva potuto resistere, perché la passeggiata era fatta apposta
per tutti, proprio per annullare ogni tentativo e problema individuale,
per amalgamarli con quella società che brulicava, per impastarli
come la nebbia ai fiati di tutti. Cosí si poteva averne coscienza e
scaricarne il peso, la crudeltà che stava annidata dentro il cuore, nel
profondo delle stanze, dei vicoli e del silenzio familiare. Alberto era
un amico molto leggero, remissivo, sopportava tutto, qualsiasi
aggressione e qualsiasi crudeltà.
Guido poteva raccontargli che aveva voglia di uccidere suo padre
e che pensava di farlo in un modo, che arrivava a spiegargli fino alle
minuzie, che Alberto diceva: «è giusto, è giusto, ti capisco». Subito
dopo poteva accettare l’idea di violentare una ragazza, di fuggire da
Urbino o di andare a rubare alla Cassa di Risparmio, sempre con la
stessa convinzione.
Quella sera, uscendo dal portico, disse: – E passata la Cancellieri–. Tutta la serata fu rapita dalla ricerca della Cancellieri. Guido ed
Ettore la cercarono dappertutto, per le strade della passeggiata, con
agguati alla fine del corso e ispezioni nei negozi. Non la incontrarono
e poterono calmarsi solo quando cominciarono a parlarne. Ettore
domandò: – Quando sarà tornata? Dove abiterà?– A casa sua, – disse Guido, – nel piú bel palazzo di Urbino.– L’hai mai visto dentro? – domandò Ettore.– Sí, al ginnasio, e poi ho rivisto il cortile anche qualche mese fa.– È vero che è di Bramante?
Piú facile che sia di Francesco di Giorgio Martini. Il duca Federico
mentre si costruiva il suo palazzo avrà detto al suo architetto di fare
anche la casa del suo consigliere, Bartolomeo Cancellieri. E gli
diede il terreno proprio dalla parte dei Cancellieri, di quei terreni in
alto che davvero custodiscono la città come una cancellata. Il primo
Cancellieri aiutò il duca Federico a liberarsi del fratellastro Oddo
Antonio, con una rivolta che precipitò il giovane Oddo dalle finestre
del palazzo; intanto Federico accorreva da Gubbio. Cancellieri fu il
primo a rivolgersi a Federico, chiedendo clemenza per tutti e
offrendogli il ducato.
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