La lingua perduta delle gru – David Leavitt

SINTESI DEL LIBRO:
Sono certa che state belli comodi lassù nell'East Side. Però
potrebbe anche non durare molto. Conosco il ritornello. Nati e
cresciuti a New York, e guarda il risultato. Una sberla in faccia."
Rose riattaccò, sbattendo giù il ricevitore. Guardò il telefono. Tra
le molte cose che dava per scontate nell'appartamento, all'improvviso
il telefono le parve molto speciale. Era di una sfumatura di grigio che
non si vedeva più tanto spesso. C'erano degli avvoltoi là fuori, decise,
tornando alla sua poltrona e alla sua lettura; erano aggrappati ai cavi
del telefono, pronti a strappare l'impianto dalla parete, ad abbattere i
muri, a spogliare l'appartamento della sua mobilia e dei suoi ricordi,
a ridipingerlo e a ristrutturarlo per se stessi, senza pensare neanche
un attimo alla vita che era stata interrotta, la vita che era stata gettata
in mezzo alla strada.
Adesso potevano comprare l'appartamento; non avrebbero avuto
più nessun risparmio da parte, ma avrebbero avuto l'appartamento.
A Rose non sembrava in grande affare, perché, tutto sommato le
sembrava di averlo già l'appartamento, ci avevano vissuto ventun
anni della loro vita, e continuavano a viverci. Cercò di immaginare di
legarsi al letto, come avevano fatto di recente alcuni vecchi affittuari
di Central Park West, ma lo trovò impossibile. C'era gente, e lo
sapeva, che il mercoledì si svegliava alle cinque del mattino per
leggere gli annunci appena usciti sul "Voice", che si incontrava coi
mediatori e che passava in rassegna gli annunci mortuari per vedere
dove la morte avrebbe potuto sgomberare dei posti.
Rose non ce la faceva. Rimandò il compito di cercare un nuovo
posto in cui vivere come aveva rimandato settimana dopo settimana,
per sei mesi, una lettera di cui era debitrice alla sorella di Chicago.
Sapevano di avere "da sei mesi a un anno", mentre venivano stabiliti
i termini del passaggio dell'edificio dalla locazione alla cooperativa.
Suonava come la risposta alla domanda: "quanto tempo mi resta,
dottore?" Giorno dopo giorno Rose controllava la posta ed era
sollevata nel non trovare alcun avviso minaccioso con date stabilite,
tanto che cominciò a sperare che questo vago periodo di grazia
continuasse per sempre. Ma arrivava sempre qualche lettera dura a
ricordarle che aveva i giorni contati.
C'erano pomeriggi in cui, tornando a casa a piedi dal lavoro,
alzava gli occhi sugli edifici a più piani che la circondavano e li
vedeva trasformati, in un batter d'occhio, in cataste di corpi, con arti
vivi che si agitavano tra quelli morti. Il pensiero di tanta vita,
inscatolata, ammassata per diciassette piani, le faceva venire la
nausea.
Philip talvolta veniva a sostenere i suoi genitori col loro trauma
da granata. Di questi tempi il suo cuore era altrove, dall'altra parte
della città, innamorato per la prima volta, e aveva ben poco spazio
per il dolore.
Eppure, seduto nel soggiorno coi genitori, provava un'improvvisa
nostalgia per l'infanzia e immaginava di poter dire, "Buona notte", e
girarsi, scoprendo la sua vecchia stanza così com'era, con i compiti
pronti sulla scrivania. Per la maggior parte della sua vita, qui aveva
consumato la cena, eseguito i compiti, si era lavato le mani, aveva
guardato la televisione e letto libri, ed era andato a dormire.
Pensando a queste cose, gli venivano le lacrime agli occhi e sentiva
un piacevole groppo salirgli in gola.
Ma quello che provavano Rose e Owen, quando andavano a letto,
era dolore, puro e semplice. Partiva dal loro stomaco, un gorgoglio
rauco, e saliva verso le loro teste minacciando di scoppiargli in petto.
Non c'era niente di piacevole in questo dolore.
Non se la godevano affatto. Volevano vederlo sparire. La vendita
dell'appartamento era l'inizio della fine per loro. Per Philip era
l'inizio dell'inizio perché lui moriva dalla voglia di qualcosa che
segnalasse l'inizio irrevocabile della sua vera vita. Non c'era nessuna
parte della sua vita reale che volesse rivivere, e ne era contento. Non
aveva rimpianti lui, se non fastosi. Guardava solo davanti a sé,
assetato di futuro, mentre i suoi genitori, improvvisamente indifesi
di fronte a un cambiamento, si guardavano alle spalle contemplando
tutto ciò che avevano dato per scontato. Qualunque cosa potesse
succedere, gli anni neutrali, gli anni che ricordavano come indolori,
erano finiti. Di notte restavano svegli, distanti, ciascuno aggrappati
alla sponda esterna del letto, e davano per scontato che l'altro
dormisse. Fuori passavano le macchine, proiettando le loro ombre
dodici piani più su, e le ombre planavano come uccelli veloci sulla
moquette.
Per lo più la domenica Rose e Owen la passavano separati. Non
era una regola, solo che andava così.
Nell'anno successivo al suo ritorno dal college, c'era stata un'altra
tradizione domenicale, e cioè che Philip veniva a cena, ma
recentemente le sue visite si erano fatte irregolari. Telefonava per
dire: "Non ce la faccio proprio questa settimana. Ma che ne dici di
trovarci a pranzo, mamma?" Dato che loro due lavoravano nella
stessa zona, il pranzo per loro era una possibilità concreta.
Rose lavorava da vent'anni alla T.S. Motherwell, una piccola casa
editrice letteraria. Aveva sistemato con ordine il suo cubicolo. La
mattina beveva il caffè con la sua amica Carole Schneebaum, poi
spariva dietro la porta per dedicarsi alle sue letture metodiche. Ogni
ora o dieci pagine (a seconda di quale delle due cose veniva prima) si
alzava, si stiracchiava, e beveva un po’ di caffè. Altrove nell'ufficio
c'era gente che si allarmava per la scarsità delle vendite e per le
cattive recensioni, ma per lei tutto questo non significava granché. A
pranzo con Philip lo ascoltava parlare di veste editoriale e di
marketing del prodotto, ma neanche questo la interessava granché.
Philip lavorava per una Società che sfornava romanzi d'amore
tascabili al ritmo di cinque o dieci al mese. Si meravigliava un po’ per
il suo entusiasmo per il lavoro, ma la vita di Philip aveva parametri
diversi dalla sua. "Imparare a usare il computer è una cosa
impagabile" le spiegava. "In ufficio tutto viene fatto sul monitor di un
computer, mamma. Non si vede neanche una macchina da scrivere
in giro."
Rose aveva una macchina da scrivere Royal vecchia di
trentacinque anni.
Non avrebbe dovuto sorprenderla che il mondo l'avesse
sorpassata, eppure la sorprendeva. Philip viveva in una strada sporca
in una parte della città in cui Rose aveva sempre pensato che i
bianchi non potessero neanche passeggiare. Ma no, l'assicurava lui, il
suo quartiere un tempo devastato aveva ripreso quota; era quasi chic.
Il piccolo appartamento in cui viveva era un gemma, un gioiello,
anche se aveva soltanto una stanza, e la vasca da bagno era nella
zona cucina.
Durante un fine settimana in cui Owen era via per una
conferenza, Philip l'aveva invitata a cena per mostrarle
l'appartamento. A Rose non piacque l'aria che tirava in quella strada,
gli adolescenti portoricani con le radio sulle spalle, i gatti randagi che
miagolavano sul marciapiede.
C'erano graffiti sull'edificio, bottiglie vuote di rum sulle scalette
d'ingresso. Dentro, comunque, c'erano mattoni a vista e pareti color
malva disseminate di poster incorniciati.
Philip aveva dipinto la vasca da bagno di un rosso brillante.
Una volta finita la cena, Philip si infilò il cappotto per
accompagnare sua madre a Broadway, dove poteva prendere un taxi.
"Questa è una zona molto africana" le disse mentre si facevano strada
tra una congrega di bambini minacciosi radunati nei corridoi. "I
corridoi di questo caseggiato odorano di spezie africane." Uscendo
dalla porta dovettero scavalcare un uomo addormentato nel
vestibolo. "Il nostro portiere" disse Philip, e rise.
"Philip" disse Rose, sta bene quell'uomo?"
"Non preoccuparti" disse Philip.
"Abita qui. Solo che a volte non ce la fa a salire le scale."
"Capisco."
S'incamminarono sulla Centoseiesima Strada. "Quanto tempo
pensi di restare in questo posto?" chiese Rose.
"Il più a lungo possibile"
L'affitto è schifosamente basso, e il padrone di casa sarebbe
disposto a uccidere pur di liberarsi di me e alzarlo. Ma non possono
trasformarlo in una cooperativa. Ho controllato.
Per via di qualche clausola oscura che riguarda l'edificio, e che ha
a che fare con le tubature o qualche cosa del genere."
"Cooperativa, questo posto?" Rose era incredula. "Che tu lo creda
o no, sta succedendo in tutto il vicinato."
"Santo cielo."
Continuarono a camminare. In Amsterdam Avenue, un uomo
stava orinando contro il marciapiede. "È qui che te ne vai in giro?"
chiese Rose, distogliendo lo sguardo dall'uomo.
"Cosa intendi dire?"
"Ma sì" disse Rose. "Quello che fai tu. Coi tuoi amici."
Philip tossicchiò. "No, no" disse.
"Non da queste parti. In realtà, ultimamente ho passato un sacco
di tempo nell'East Village. è un quartiere strampalato - pino di punk
e vagabondi e pessimi artisti tutti agghindati in tenute stravaganti."
"Tu non sei niente di tutto questo" disse Rose.
A Philip cadde la mascella di fronte a tale affermazione, ma non
rispose.
Invece stornò gli occhi e si strinse la sciarpa intorno alla gola.
Rose ebbe l'impressione di aver fatto la domanda sbagliata. O di
averla fatto nel modo sbagliato. Quel che voleva dire era: ti
spiacerebbe spiegarmi che cosa è successo, perché la tua vita è tanto
diversa dalla mia?
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