Inside Job – Adam – Monica Lombardi

SINTESI DEL LIBRO:
Viola marciava al passo della musica sparata nei timpani, gli anfibi
che quasi aggredivano l’asfalto del marciapiede.
“This is what it’s all about, no one can slow us down. We ain’t
gonna stop until the clock runs out. Bottoms up. Hell can’t handle all
of us, so get your bottles up.”
1
Quello non era un quartiere dove di norma si sarebbe recata, dove,
solo un anno prima, non avrebbe mai pensato di andare così
spesso.
Era già passato un anno?
Viola spinse il portone di vetro e si ritrovò nella spaziosa ed
elegante lobby. Vestita tutta di nero, giubbino di pelle, capelli
spettinati e neri come la notte, sguardo “non fatemi incazzare”
enfatizzato da una generosa dose di eyeliner, ecco l’immagine che la
parete a specchio le restituiva. Era talmente fuori posto mentre
avanzava sul lucido pavimento di marmo che risplendeva sotto il
grosso lampadario di cristallo che, ogni volta che si presentava lì, si
aspettava che il portiere usasse la prestanza fisica (i due che si
alternavano dietro al bancone ne avevano entrambi da vendere) per
bloccarla.
Forse l’avrebbero fatto, ma ormai la conoscevano.
«Buonasera, Danny» lo salutò, togliendosi uno dei due auricolari.
Il portiere in servizio quella sera si chiamava Daniele, ma lei si
divertiva a stuzzicarlo chiamandolo Danny.
«Buonasera, signorina Viola» rispose lui imperturbabile.
Si era presentata, la prima volta che era entrata lì. Una
presentazione formale più che amichevole, con tanto di documento
di identità, ma in fondo non era colpa di Danny: erano le regole per
proteggere gli inquilini del lussuoso palazzo. Soprattutto il
proprietario, che ne occupava l’attico.
«Il signor Castelli la sta aspettando.»
Lupus in fabula.
Viola non aveva rallentato ed era già davanti all’ascensore.
Premette con forza e più volte il tasto di chiamata dell’unico dei due
ascensori che saliva fino all’attico e le porte si aprirono
immediatamente con un ding. Non le era mai capitato che non fosse
al piano, tanto che era convinta che tra le mansioni del portiere ci
fosse anche quella di richiamarlo una volta terminata la sua corsa ai
piani alti.
Entrò, ed ecco un altro specchio pronto a restituirle la sua
immagine, e con maggiori dettagli. Viola sbuffò e, dopo aver premuto
l’ultimo tasto in alto, si voltò verso le porte che si stavano chiudendo
e strizzò l’occhio al sempre impettito Danny.
Poi fu sola nella cabina e alzò lo sguardo sui numeri che presero a
illuminarsi uno dopo l’altro, da sinistra verso l’estremità di destra.
A, come Attico.
A, come Adam.
Adam Carrington Castelli era un uomo caparbio, questo doveva
concederglielo.
Dopo un primo inaspettato e fallimentare incontro tanti anni prima,
la seconda volta le si era presentato con una proposta che solo un
pazzo avrebbe rifiutato.
Ding, era arrivata in cima. Le porte scivolarono silenziosamente di
lato rivelando un pianerottolo con il pavimento a scacchi bianchi e
neri ed un’unica porta. Appena lasciata la cabina, Viola estrasse il
lettore MP3, lo spense e il silenzio la investì, più concreto e assoluto
del muro color crema che aveva di fronte. Sfilò anche il secondo
auricolare e rimise tutto in tasca, quindi suonò il campanello e alzò
uno sguardo di sfida verso la minuscola telecamera.
Sono io e mi avete voluto voi qui.
Voi erano il padrone di casa e il suo maggiordomo-assistente
tuttofare.
«Welby» disse a mo’ di saluto quando la porta venne aperta.
Dall’interno giunsero delle note di musica classica che aveva
imparato a riconoscere: dai Nickelback a Bach, se quello non era un
simbolo della distanza tra lei e l’inquilino di quell’attico, che cosa lo
era?
«Signorina Viola.»
Da nessun’altra parte in città sembravano amare tanto quel
termine: di certo quell’edificio era l’unico posto al mondo in cui
qualcuno l’avesse mai chiamata “signorina”.
«La stanno aspettando in salone.»
Questa volta il plurale la stupì e la fece quasi esitare, ma si riprese
in tempo. Procedette verso la doppia porta, sapendo che i due
battenti sarebbero scivolati di lato non appena lei fosse stata
abbastanza vicina. La prima volta si era stupita di trovare delle porte
scorrevoli automatiche in un’abitazione privata, poi aveva capito.
L’ingresso del salone si aprì e la vista che la prima volta le aveva
tolto il fiato le si parò davanti, oltre la vetrata in fondo. Quella sera
però non fu la città illuminata a catturare il suo sguardo, bensì i due
uomini di spalle che sembravano persi nel panorama. No, non persi:
il suo udito allenato fece in tempo a cogliere le ultime sillabe di una
voce profonda che non aveva mai sentito, prima che entrambi si
voltassero verso di lei.
«Viola. Benvenuta.»
Adam Castelli era biondo, il volto definito da una barba ben curata,
gli occhi attenti come se non dovesse mai sfuggirgli nulla. Bello da
mozzare il respiro, e in sedia a rotelle.
In piedi accanto a lui c’era un uomo che, con i suoi capelli scuri,
una crescita di barba di un paio di giorni a oscurargli la mascella
quadrata e uno sguardo strafottente, avrebbe potuto essere la sua
antitesi. Tranne che per la bellezza, perché anche lui non avrebbe
sfigurato su un red carpet o tra le pagine di una rivista di moda (o, si
corresse Viola notando i muscoli che tendevano la maglia sottile, di
fitness.)
L’angelo del paradiso e l’angelo caduto, ecco chi le ricordava
quella strana accoppiata.
«Posso presentarti Noah Ferri?»
Ripresasi dalla sorpresa, Viola avanzò e raggiunse i due uomini a
pochi passi dalla vetrata. Strinse la mano dello sconosciuto e provò
subito il desiderio di cancellare quel lampo divertito nei suoi occhi
scuri.
«Pensavo che saremmo stati soli» disse poi rivolta ad Adam.
La prima volta che si era trovata ad interagire con lui si era sentita
in imbarazzo nel torreggiare su di lui, convinta che potesse dargli
fastidio. Ma Adam non aveva mai mostrato segni di disagio e lei si
era presto abituata a quella prospettiva diversa. Anche seduto,
anche se doveva alzare lo sguardo per fissarla negli occhi come
stava facendo in quel momento, Adam trasudava carisma e
autorevolezza.
«La nostra Viola è sempre molto diretta» osservò.
«Non sono tua» fu la sua secca replica.
Qualcosa attraversò gli occhi chiari dell’uomo che era riuscito a
strapparla alla strada, e per una volta Viola si pentì di essere stata
così brusca. Ma era la sua reazione istintiva alle persone troppo
sicure di sé: aggrediva per difendersi, una modalità che, dopo anni di
vita nel sottobosco, era ormai per lei come una seconda pelle.
«Vogliamo andare nello studio?»
Adam li precedette verso un corto corridoio che si apriva a una
delle estremità del salone. “Studio” era un termine riduttivo: la stanza
dove Adam li accompagnò, e che Viola aveva già visto in altre
occasioni, aveva sì una scrivania in un angolo, ma a dominarla
erano il tavolo centrale con piccoli monitor incorporati, i quattro
grossi schermi appesi ad una parete e, sull’altra, i tre ripiani su cui
alloggiavano altrettanti computer, due torri e un laptop. Nessuna
sedia, di fronte a quei gioielli della tecnologia, perché chi li utilizzava
viaggiava sulla propria.
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