In viaggio con Erodoto – Ryszard Kapuscinski

SINTESI DEL LIBRO:
Accanto al portello del gigantesco quadrimotore dell’Air India International,
una hostess in sari color pastello accoglieva i passeggeri. Le tinte tenui del
suo abito suggerivano un volo calmo e sereno. Teneva le mani giunte in
segno di
preghiera, nel tradizionale gesto di saluto indù. Sulla fronte, all’altezza delle
sopracciglia, aveva dipinto un puntino di un vivido rosso rubino.
All’interno dell’aereo avvertii un sentore penetrante e sconosciuto,
proveniente probabilmente da incensi orientali, erbe, frutti e resine indiani.
Volavamo di notte. Dal finestrino vedevo solo una lucina verde che
ammicca-va all’estremità dell’ala. Il boom demografico non era ancora in
atto, a bordo c’era sempre posto, gli aerei viaggiavano spesso semivuoti.
Anche quella volta i passeggeri dormivano comodamente distesi sulle
poltrone.
Sentendo che non avrei chiuso occhio, presi la borsa e ne estrassi il libro che
la Tarlowska mi aveva dato per il viaggio. Le Storie di Erodoto sono un
poderoso tomo di varie centinaia di pagine. I libri voluminosi fanno gola, è
un po’ come sedersi a una tavola riccamente imbandita. Cominciai
dall’introduzione, dove il
traduttore, Seweryn Hammer, descriveva la fortuna di Erodoto e spiegava il
senso
della sua opera. Erodoto, scriveva Hammer, era nato intorno al 485 a.C. ad
Alicarnasso, un porto dell’Asia Minore. Verso il 450 si era trasferito ad
Atene e da lì, dopo alcuni anni, nella colonia greca di Turi, nell’Italia
meridionale.
Dopo aver trascorso
quasi tutta la vita viaggiando, era morto intorno al 425, lasciando un unico
testo: le Storie.
Hammer cerca di familiarizzare il lettore con la figura di un uomo vissuto
duemilacinquecento anni fa, di cui si sa ben poco e di cui è perfino difficile
immaginare l’aspetto. La sua opera, nella versione originale, era accessibile
solo ai pochi specialisti capaci, oltre che di leggere il greco antico, di
decifrare un tipo di scrittura molto particolare: il testo, infatti, aveva l’aspetto
di un’unica interminabile parola che procedeva ininterrotta per decine di
rotoli di papiro: “Non esistevano divisioni tra parole, frasi, capitoli e libri”
scrive Hammer. “Il testo era impenetrabile come un tessuto.” Erodoto si
nascondeva dietro questo tessuto come dietro una fitta cortina che già per i
contemporanei era un rebus, figuriamoci quindi per noi.
La notte finì, spuntò l’alba. Attraverso il finestrino mi si apriva davanti per la
prima volta una parte tanto vasta del nostro pianeta. Una vista che faceva
pensare all’infinità del mondo. Il mondo che fino ad allora avevo percorso
misurava al massimo cinquecento chilometri in lunghezza e quattrocento in
larghezza. Ora invece volavamo da ore e giù in basso, lontano lontano, la
terra non faceva che cambiare colore, passando dal marrone bruciato al verde,
e poi a
una sterminata distesa blu scuro.
Atterrammo a Nuova Delhi la sera tardi. Sprofondai all’istante nel caldo umi
do.
Ero fradicio di sudore, sperduto in un luogo strano e sconosciuto. I miei
compagni di viaggio erano spariti di colpo, risucchiati dalla vivida fiumana
colorata di parenti in attesa.
Ero rimasto solo e non sapevo che fare. Vedevo l’edificio dell’aeroporto
campeggiare buio e deserto nella notte, ma non avevo la minima idea di che
cosa
ci fosse oltre. Dopo un certo tempo, vidi venirmi incontro un vecchio
dall’ampia tunica bianca al ginocchio, con una rada barbetta grigia e un
turbante arancione. Mi disse qualcosa di incomprensibile.
Probabilmente cercava di sapere perché me ne restassi piantato in mezzo
all’aeroporto vuoto. Non sapendo che cosa rispondergli, mi guardai intorno
con
aria perplessa. Ero partito per quel viaggio completamente impreparato: senza
un
taccuino, senza un nome, senza un indirizzo. E senza conoscere l’inglese. In
realtà ero partito solo per ottenere una cosa altrimenti impossibile: varcare la
frontiera.
Non desideravo altro. E ora gli eventi che avevo messo in moto mi avevano
portato all’altro capo del mondo.
L’uomo rifletté un attimo, poi mi fece segno di seguirlo. Davanti all’ingresso
dell’edificio, un po’ in disparte, stava un vecchio autobus scassato. Salimmo,
l’uomo mise in moto e partimmo. Dopo qualche centinaio di metri rallentò,
suonando il clacson alla disperata. Davanti a noi si stendeva un largo fiume
bianco, la cui estremità si perdeva lontano, nelle tenebre della calda notte
afosa. Il fiume era formato da gente che dormiva all’aperto: alcuni sdraiati su
brande di legno, stuoie e coperte posate sulla carreggiata, ma i più distesi
direttamente sull’asfalto e sulla sabbia che ne bordava i lati.
Pensai che la gente svegliata dal rumore del clacson ci si sarebbe avventata
contro per picchiarci o addirittura linciarci, ma non fu così. A mano a mano
che
avanzavamo, quelli si alzavano e si spostavano portandosi dietro i bambini e
sospingendo vecchie donne a malapena in grado di muoversi. In quella loro
premurosa arrendevolezza e dimessa umiltà c’era qualcosa di timido, un
atteggiamento di scusa, quasi che il dormire sull’asfalto fosse un crimine di
cui cancellare al più presto le tracce. Continuammo ad avanzare verso la città
per un tempo che mi parve infinito, con il clacson che strombazzava senza
tregua e la gente che si alzava e si scostava. Ma anche in città si procedeva a
fatica: sembrava un grande accampamento di sonnambuli biancovestiti.
Finalmente arrivammo a una porta con sopra scritto Hotel in neon rosso.
L’autista mi lasciò al bancone e sparì senza una parola. Il portiere dal
turbante azzurro mi accompagnò al primo piano, in una piccola stanza con un
letto, un tavolo e un lavandino. Senza una parola strappò via il lenzuolo
brulicante di insetti in preda al panico, lo scosse sul pavimento, mormorò una
parola di buonanotte e sparì.
Rimasi solo. Mi sedetti sul letto e ricapitolai la situazione. Di negativo c’era
che non sapevo dove mi trovassi; di positivo, che avevo un tetto sulla testa e
un posto dove ripararmi (l’albergo). Provavo una sensazione di sicurezza? Sì.
Di
estraneità? No. Di stranezza? Sì, mi sentivo strano, ma non avrei saputo
spiegare in che senso. Quella sensazione indefinita si precisò comunque la
mattina seguente, quando nella camera entrò un uomo scalzo, portandomi una
teiera e qualche biscotto. Era la prima volta che mi capitava una cosa del
genere. Senza una parola posò il vassoio sul tavolo, si inchinò e uscì in
silenzio. Nel suo comportamento c’era una tale cortesia naturale, un tale tatto,
qualcosa di così soprendentemen-te delicato e dignitoso, che provai subito un
senso di ammirazione e di rispetto nei suoi confronti.
Ma il vero e proprio scontro tra civiltà avvenne un’ora dopo, quando uscii
dall’albergo. Su un piccolo spiazzo dall’altra parte della strada avevano
cominciato a radunarsi fin dall’alba i guidatori di risciò: uomini magri e
ingobbiti, dalle gambe ossute e le vene sporgenti. Informati che nel piccolo
albergo era sceso un sahib, per definizione uno pieno di soldi, aspettavano
pazientemente l’occasione di mettersi al mio servizio. La sola idea di stare
comodamente seduto in un risciò tirato da una creatura pelle e ossa, mezza
morta
di fame, mi riempiva di indignazione e di orrore. Dovevo forse trasformarmi
in
uno sfruttatore, in un vampiro oppressore dei miei simili? Ero stato educato
con
tutt’altri principi, a credere cioè che quegli scheletri viventi erano i miei
fratelli, i miei amici, carne della mia carne. Appena i guidatori di risciò mi
circondarono con gesti supplichevoli e invitanti, cominciai a protestare
scostandoli e scacciandoli fermamente. Erano sorpresi: non riuscivano a
capire che cosa volessi né dove stesse il problema. Contavano su di me, ero la
loro unica speranza di pagarsi una scodella di riso. Camminavo senza voltare
la testa, insensibile, irremovibile, fiero di non essermi
lasciato ridurre al ruolo di una sanguisuga sfruttatrice del sudore umano.
La vecchia Delhi! Quei vicoli polverosi immersi in un caldo micidiale,
pervasi dall’odore soffocante della fermentazione tropicale. Quella folla di
gente che avanzava in silenzio, quell’andirivieni di facce scure, madide,
anonime e chiuse. Bambini che non dicono una parola, un uomo intento a
fissare ottu-samente i resti della sua bicicletta sfasciata, una donna che vende
qualcosa racchiuso in un involto di foglie, ma che cosa? Che c’è lì dentro?
Un mendicante esibisce la pelle dello stomaco come incollata alla colonna
vertebrale: quasi non si riesce a crederci. Nel camminare occorre fare
attenzione poiché i commercianti espongono la merce per terra, sui
marciapiedi e sui bordi delle strade. Un uo-mo, con davanti a sé due file di
denti umani e alcune vecchie tenaglie da dentista allineate su un giornale,
pubblicizza i suoi servigi stomatologici. Accanto a lui un ometto secco e
rattrappito vende libri. Frugo tra le pile polverose e finisco per sceglierne
due: For Whom the Bell Tolls di Hemingway (per imparare la lingua) e
Hindu Manners, Customs and Ceremonies di padre J.A. Dubois.
Padre
Dubois arrivò in India come missionario nel 1792, trascorrendovi trentun an
ni.
Il libro che avevo appena acquistato, edito per la prima volta in Inghilterra nel
1816 con l’aiuto della Compagnia Britannica delle Indie Orientali,
rappresentava appunto il frutto dei suoi studi sulle usanze indù.
Rientrai in albergo. Aprii Hemingway e lessi la prima frase: “He lay fiat on
the brown, pine-needled floor of the forest, his chin on his folded arms, and
high overhead the wind blew in the tops of the pine trees”. Non capivo una
parola.
Mi
ero portato dietro un vocabolarietto tascabile inglese-polacco, l’unico
reperibile in tutta Varsavia. Vi trovai solo brown, marrone. Passai alla frase
seguente: “The mountainside sloped gently…”. Peggio che andar di notte.
“There
was stream alongside…” Più tentavo di capirci qualcosa, più au-mentavano
lo scoraggiamento e la disperazione. Mi sentivo accerchiato, preso in
trappola dalla lingua. In quel momento la lingua mi sembrava qualcosa di
materiale, un’entità fisica, un muro, frapposto tra me e il mondo, che mi
impediva di raggiungerlo. Era un sentimento doloroso e umiliante. È questa,
forse, la ragione per cui, al primo approccio con una persona estranea,
proviamo un senso di timore e d’incertezza e drizziamo le antenne, vigili e
diffidenti.
Che ci porterà quell’incontro? Come andrà a finire? Meglio non rischiare!
Meglio restare al sicuro nel nostro bozzolo! Meglio non mettere il naso fuori
di casa!
Se avessi dato retta all’istinto forse anch’io sarei scappato dall’India e me ne
sarei tornato a casa. Il fatto era che disponevo di un biglietto di ritorno sulla
nave passeggeri Batory, a quel tempo in servizio tra Danzica e Bombay, e che
la nave in questione non era arrivata in quanto il presidente egiziano, Gamal
Nasser, aveva nazionalizzato il canale di Suez provocando l’intervento
armato di Francia e Inghilterra. Era scoppiata la guerra, il canale era chiuso e
la Batory bloccata da qualche parte del Mediterraneo. Tagliato fuori dal mio
paese, ero condannato all’India.
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