Il viaggiatore del secolo – Andrés Neuman

SINTESI DEL LIBRO:
Ha fre-eddo? gridò il vetturino con la voce tremolante per i sobbalzi della
carrozza. Sto be-ene gra-a-zie! rispose Hans rabbrividendo.
Le luci dei fanali si affievolivano al ritmo del galoppo. Le ruote sputavano
fango. Sul punto di spaccarsi in due, le balestre si storcevano a ogni buca del
terreno. I cavalli gonfiavano le froge e sbuffavano nuvolette di fiato. Sopra la
linea dell’orizzonte rotolava una luna smorta.
Già da un po’ Wandernburgo si scorgeva di lontano, in direzione sud. Ma,
pensò Hans, come capita spesso sul finire di una giornata spossante, la
cittadina sembrava spostarsi insieme a loro. Sopra l’abitacolo il cielo era
basso. A ogni frustata del vetturino il freddo prendeva coraggio e gravava sul
contorno delle cose. Ma-anca mo-olto? chiese Hans sporgendo la testa dal
finestrino. Dovette ripetere due volte la domanda perché il vetturino si
riscuotesse dalla sua rumorosa vigilanza e, facendo segno con la frusta,
esclamasse: Lo-o ve-ede be-ene anche lei! Hans non capì se intendeva dire
che mancavano pochi minuti o che non si poteva mai sapere. Essendo
l’ultimo passeggero rimasto e non avendo nessuno con cui parlare, chiuse gli
occhi.
Quando li riaprì, vide una cinta muraria e una porta a volta. Man mano che
si avvicinavano, Hans percepì qualcosa di anomalo nella solidità di quelle
mura, una specie di monito sulla difficoltà di uscire più che di accedervi. Alla
luce fioca dei fanali scorse il profilo dei primi edifici, alcuni tetti squamosi,
torri affilate, decorazioni simili a vertebre. Ebbe l’impressione di entrare in
un posto appena sgomberato e che il cozzo degli zoccoli e le scosse delle
ruote sui ciottoli rimbombassero più forte. Era tutto talmente silenzioso da
dargli l’impressione che qualcuno li spiasse trattenendo il respiro. La vettura
svoltò l’angolo, il rumore del galoppo si attutì: la strada era di terra battuta.
Attraversarono via del Vecchio Paiolo. Hans notò un’insegna di metallo
sbatacchiata dal vento. Fece segno al vetturino di fermarsi.
Il vetturino scese di cassetta e calcando di nuovo la terra parve
disorientato. Mosse due o tre passi, si guardò i piedi, fece un sorriso smarrito.
Accarezzò il primo cavallo sulla groppa, gli sussurrò qualche parola di
gratitudine a cui l’animale rispose con uno sbuffo. Hans lo aiutò a slegare le
funi dell’imperiale, togliere il telone di copertura bagnato, scaricare il suo
bagaglio e un grande baule dotato di manici. Cosa c’è li dentro, un morto? si
lamentò il vetturino mollando il baule e fregandosi le mani. Un morto solo,
no, sorrise Hans. Più d’uno. Il vetturino scoppiò in una risata secca,
accompagnata però da un lampo di preoccupazione. Anche lei passerà la
notte qui? chiese Hans. No, spiegò il vetturino, io proseguo per Wittenberg: lì
conosco un buon posto per dormire e c’è una famiglia che deve raggiungere
Lipsia. Poi, guardando di sottecchi l’insegna che cigolava, aggiunse: Sicuro
di non voler proseguire un altro po’? Grazie, no, disse Hans, qui va bene,
devo riposare. Come vuole, signore, è lei che decide, disse il vetturino prima
di tossicchiare più volte. Hans lo pagò, gli lasciò il resto di mancia e prese
commiato. Alle sue spalle, udì la frusta che schioccava, il legno che crepitava
e gli zoccoli che percuotevano il terreno allontanandosi.
Fu soltanto quando si ritrovò da solo con il suo bagaglio davanti alla
locanda che sentì delle fitte alla schiena, una scossa nei muscoli, un ronzio
alle tempie. Aveva ancora la sensazione di essere sballottato, le luci
sembravano intermittenti, le pietre degli edifici malferme. Hans si sfregò gli
occhi. I vetri appannati non permettevano di vedere l’interno della locanda.
Bussò alla porta, a cui era ancora appesa una ghirlanda natalizia. Nessuno
andò ad aprire. Tentò con il battaglio ghiacciato. La porta cedette a forza di
spintonate. Scorse un corridoio rischiarato da lucerne appese a un uncino.
Sentì il piacevole tepore dell’ambiente interno. In fondo al corridoio si udiva
come uno sfrigolio. Hans trascinò a fatica la valigia e il baule dentro la
locanda. Si mise sotto un lume, per rinvenire dal freddo. Sobbalzò quando si
accorse della presenza del signor Zeit, che lo guardava da dietro il bancone
dell’accoglienza. Stavo per venire ad aprirle, disse. Il locandiere si muoveva
con estrema lentezza, come se fosse rimasto incastrato tra il bancone e la
parete. Aveva una pancia simile a un tamburo. Sapeva di stoffa stantia. Da
dove viene? domandò. Ora arrivo da Berlino, anche se questo in realtà non ha
importanza. Per me ne ha, signore, lo interruppe Zeit senza accorgersi che
Hans intendeva un’altra cosa. E quante notti pensa di fermarsi? Una, credo,
disse Hans, ma non ne sono sicuro. Quando lo saprà, disse il locandiere, mi
usi la cortesia di informarmi, ci occorre sapere quante stanze libere abbiamo a
disposizione.
Il signor Zeit prese un candelabro. Accompagnò Hans lungo il corridoio,
poi su per una scala. Hans guardava il suo corpo tondeggiante che scalava
faticosamente gradino dopo gradino e temette di vederselo rovinare addosso.
L’intera locanda sapeva di olio bruciato, dello zolfo degli stoppini, di sapone
e di sudore insieme. Superarono il primo piano e continuarono a salire. Hans
si stupì nel vedere che tutte le stanze sembravano libere. Quando raggiunsero
il secondo piano, il locandiere si fermò davanti a una porta sulla quale era
tracciato col gesso il numero sette. Riprendendo fiato, spiegò
orgogliosamente: La sette è la migliore. Prese di tasca un anello, un anello
consunto, strapieno di chiavi, e dopo svariati tentativi e improperi a mezza
voce, entrarono nella stanza.
Reggendo il candelabro, il locandiere aprì un varco nel buio fino alla
finestra. Mentre spalancava le imposte, la finestra emise un accordo di legno
e polvere. La luce della strada era così fioca che, anziché rischiarare la stanza,
si legò alla penombra come un gas. Al mattino è abbastanza soleggiata,
spiegò il signor Zeit, è orientata verso est. Hans si sforzò di mettere a fuoco la
stanza strizzando le palpebre. Intravide un tavolo, due sedie. Un lettuccio
singolo, con coperte di lana piegate sopra. Una tinozza di stagno, un pitale
arrugginito, un bacile sopra un treppiedi, una brocca. Un caminetto di pietra e
mattoni, con una piccola mensola su cui sembrava impossibile poter
appoggiare qualcosa (Solo la tre e la sette hanno il camino, lo informò il
signor Zeit), alcuni attrezzi da un lato: un badile, una pala, delle pinze
annerite, uno scopino spelacchiato. Dentro il camino c’erano due ciocchi
riarsi. Sulla parete dirimpetto alla porta, tra il tavolo e la tinozza, un quadretto
che gli parve un acquerello attirò l’attenzione di Hans, anche se non riuscì a
vederlo bene. Ancora una cosa, concluse solennemente il signor Zeit
avvicinando il candelabro al tavolo e passandovi sopra la mano: questo è
rovere. Hans accarezzò deliziato il tavolo. Osservò i candelabri con candele
di sego, la lanterna rugginosa. La prendo, disse Hans. Detto fatto, il signor
Zeit gli tolse la redingote per appenderla a uno dei chiodi che sporgevano
vicino la porta: l’appendiabiti.
Moglie! gridò il locandiere come se fosse improvvisamente spuntato il
sole. Moglie, muoviti! Un cliente! Subito si udirono dei passi che salivano.
Dietro la porta si materializzò un donnone, con indosso una sottana di cotone
e un grembiule con una tasca enorme tra i seni. Al contrario del marito, la
signora Zeit era scattante ed efficiente. In un batter d’occhio cambiò le
lenzuola del letto con altre un po’ meno gialle, diede una rapida spazzata al
pavimento, scese a riempire la brocca. Quando la riportò, Hans bevve in
abbondanza, quasi senza prendere fiato. Gli porti su il bagaglio? suggerì il
signor Zeit. Lei sospirò. Il marito decise che quel sospiro era un sì, salutò
Hans con un cenno della testa e scomparve giù per le scale.
A pancia in su sopra il letto spartano, Hans tastò la ruvidità delle lenzuola
con la punta dei piedi. Chiudendo gli occhi gli parve di sentir grattare sotto le
assi del pavimento. Mentre il sopore lo vinceva e tutto perdeva d’interesse, si
disse: Domani raccatto le mie cose e mi trasferisco da qualche altra parte. Se
si fosse avvicinato al soffitto con una candela, avrebbe scoperto le grandi
ragnatele delle travi. Preso fra le ragnatele un insetto seguì per tutta la notte,
instancabile, il sonno di Hans.
Si alzò tardi con un buco nello stomaco. Un sole tiepido caracollava sul
tavolo, versandosi sulle sedie come uno sciroppo. Hans si lavò nel bacile, aprì
la valigia, si vestì. Poi si avvicinò al quadretto ed ebbe la conferma che si
trattava di un acquerello. La cornice gli sembrò troppo vistosa. Staccò dal
muro l’acquerello per esaminarlo, e scoprì uno specchietto sul retro della
cornice. Lo riappese con lo specchio davanti. Riempì il bacile con l’acqua che
restava nella brocca, staccò un pezzo di sapone, prese il suo pennello, il suo
rasoio e le sue essenze. Si fece la barba fischiettando senza saper bene cosa.
Scendendo le scale incrociò il signor Zeit, che aveva con sé un quaderno e
faceva i gradini come se li contasse. Il signor Zeit gli chiese di saldare il
conto prima di far colazione. È una regola della casa, disse. Hans tornò in
camera e ne uscì con la somma esatta aggiungendovi una mancia, che
consegnò al locandiere con un sorriso ironico. Al piano terra, si mise a
curiosare in giro. In fondo al corridoio vide uno stanzone con un focolare e
una marmitta sul fuoco. Davanti al focolare era sistemato un divano che,
come verificò Hans, lentamente sprofondava quando qualcuno vi si sedeva
sopra. Dal lato opposto del corridoio vi era una porta differente dalle altre
che, dedusse, doveva essere l’abitazione degli Zeit, vicino un piccolo abete
addobbato con una raffinatezza che ai due coniugi non si confaceva affatto.
Scoprì un cortile interno con alcune latrine e un pozzo. Si servì delle latrine,
tornò sollevato. A quel punto fu travolto da un effluvio di aromi. Si affrettò
nella direzione dalla quale provenivano quei profumi e vide la signora Zeit
che stava mondando delle bietole in cucina. Come guardiani inerti, ovunque
erano appesi prosciutti, salsicce, sanguinacci, lardo. Una pignatta sobbolliva
sul fuoco. Le file di padelle, mestoli, paioli e casseruole scomponevano in
raggi il mattino. Arriva tardi, si segga, ordinò la signora Zeit senza staccare
gli occhi dal coltello. Hans obbedì. Di solito serviamo la colazione in sala,
aggiunse la signora Zeit, ma considerata l’ora, mangi qua, non posso
allontanarmi dal fuoco. Lungo la tavolata erano disposte le verdure, la carne
irrorata di sangue, la buccia ondulata delle patate. Un rubinetto tintinnava
sopra un lavello zeppo di stoviglie. Sotto erano accatastate gerle di legno,
carbone, carbonella. In fondo, tra giare e orci, erano pigiati sacchi di legumi,
riso, farina, semola. La signora Zeit si asciugò le mani nel grembiule. Tagliò
in due una pagnotta, vi spalmò sopra della gelatina di frutta, mise una tazza
davanti ad Hans, la riempì di latte di pecora, vi aggiunse del caffè fino a farla
traboccare. Vuole delle uova? chiese.
Memore del senso di desolazione della sera prima, Hans si stupì
dell’alacrità di Wandernburgo, del tramenio delle sue strade. Sebbene nel
trambusto s’insinuasse un’inspiegabile calma, Hans si arrese all’evidenza che
la città era abitata. Vagò senza meta. Più volte credette di essersi perso per i
vicoli in salita, altrettante si ritrovò nello stesso punto. Scoprì che i cocchieri
di Wandernburgo evitavano di frenare per non arrecar danno alla bocca dei
loro cavalli, e gli lasciavano giusto un istante per farsi di lato. Durante la
passeggiata notò che alle finestre s’aprivano e si chiudevano le tende. Hans
aveva cercato di sorridere gentilmente in direzione di quelle finestre, ma le
ombre si ritraevano subito. Una neve leggera accennò a imbiancare l’aria, ma
la nebbia la inghiottì. Anche i colombi, svolazzando sopra la testa di Hans,
giravano la testa per guardarlo. Stordito dalle curve delle strade, con i piedi
doloranti per i ciottoli, Hans fece una sosta nella piazza del mercato.
La piazza del mercato era il punto in cui confluivano tutte le strade di
Wandernburgo, il suo cuore topografico. A un estremo c’era il municipio con
il suo tetto rosso, la facciata a cuspide. A quello opposto si ergeva la Torre
del Vento. Osservando la Torre dal selciato, ciò che attraeva di più era
l’orologio quadrato che riversava l’ora sulla piazza. Se la si guardava dalla
sua stessa altezza, però, la cosa più impressionante della torre era l’ago della
banderuola, che tremolava e scricchiolava, errabondo.
Oltre alle bancarelle di generi alimentari dove la gente faceva spesa, nella
piazza del mercato si recavano i contadini dei dintorni con i loro carri
stracolmi di prodotti. Alcuni si offrivano come braccianti a giornata. Per
qualche oscura ragione che Hans non riuscì a capire, i venditori decantavano
le loro mercanzie a bassa voce e gli accordi si facevano quasi all’orecchio. In
una bancarella comprò della frutta. Girovagò ancora per un po’ divertendosi a
contare le tendine che si scostavano al suo passaggio. Quando alzò gli occhi
all’orologio della Torre del Vento, si rese conto che aveva appena perso il
postale della sera.
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