Il potere del cane – Thomas Savage

SINTESI DEL LIBRO:
Era sempre Phil a occuparsi della castrazione; prima tagliava via
la sacca dello scroto e la buttava da parte; poi strizzava fuori uno
dopo l’altro i testicoli, incideva la guaina che li racchiudeva, li
strappava e li gettava nel fuoco, dove erano pronti i ferri
incandescenti per la marchiatura. Sorprendentemente, il sangue
sparso era poco. Dopo qualche istante i testicoli scoppiavano come
enormi popcorn. Certi uomini, si diceva, se li mangiavano conditi con
sale e pepe. «Ostriche di montagna» li chiamava Phil con un sorriso
d’intesa, poi consigliava ai giovani braccianti del ranch di mangiarne
un po’ anche loro, prima di fare gli stupidi con le ragazze.
George, il fratello di Phil, che aveva il compito di prendere al lazo
le bestie, arrossiva a sentire quei discorsi, specie se rivolti ai
dipendenti. George era un uomo massiccio, riservato e privo di
senso dell’umorismo, e Phil si divertiva a farlo uscire dai gangheri.
Dio, che gusto ci provava Phil a esasperare la gente!
Nessuno usava i guanti per un lavoro delicato come la
castrazione, ma erano necessari in quasi tutti gli altri lavori per non
spellarsi le mani con le corde e per proteggersi da schegge, tagli e
vesciche. Si usavano i guanti per prendere le bestie al lazo, per
lavorare alle staccionate, per marchiare, per gettare col forcone il
fieno al bestiame o semplicemente per cavalcare, muovere i cavalli o
condurre la mandria. Tutti li usavano, tranne Phil. Lui non si curava
di vesciche, tagli o schegge e disprezzava quelli che indossavano i
guanti per proteggersi. Le sue mani erano ruvide, forti, ossute.
I braccianti e i cowboy utilizzavano guanti di cuoio di cavallo che
ordinavano dai cataloghi di Sears, Roebuck e Montgomery Ward.
Dopo il lavoro o la domenica, quando l’edificio del dormitorio era
invaso dai vapori del bucato e dell’acqua calda per radersi, e la
fragranza delle lozioni all’alloro si sprigionava dagli uomini pronti per
andare in città, tutti si davano da fare a compilare gli ordini, si
incurvavano sopra il foglio come enormi bambini, rosicchiavano la
matita, aggrottavano la fronte sulla grafia incerta, esitavano
sull’indicazione del peso e del recapito postale. Il piú delle volte si
davano per vinti e con un sospiro cedevano l’incombenza a
qualcuno che aveva piú familiarità con lettere e numeri, qualcuno
che aveva fatto qualche anno di scuola in piú e che di solito scriveva
per loro anche le lettere ai padri e alle madri o a qualche sorella
rimasta nel cuore.
Era una bellezza ricevere l’ordinazione con la posta, una delizia e
un tormento aspettare da Seattle o da Portland il pacco che poteva
contenere, oltre ai guanti nuovi, un paio di scarpe da città, dei dischi
per il grammofono, uno strumento musicale per addolcire la
solitudine delle sere invernali, quando il vento ululava come un
branco di lupi dalle cime delle montagne.
La nostra migliore chitarra. Per musica e accompagnamento in stile spagnolo. Tastiera
larga in ebano, tavola in abete rosso con raggiere a ventaglio, fasce e fondo in
palissandro, filetto in corno naturale. Articolo di finissima fattura.
In attesa che l’ordinazione raggiungesse l’ufficio postale a quindici
miglia di distanza, leggevano e rileggevano la descrizione,
riandavano al momento in cui avevano compilato il modulo,
pregustavano tutti i particolari. Filetto in corno naturale!
«Salve ragazzi, state consultando il Libro dei Desideri?»
domandava Phil, avvicinandosi alla stufa e pestando i piedi per
liberarli dalla neve. Si guardava attorno a gambe divaricate, con le
mani nude intrecciate dietro la schiena. Nel corso degli anni alcuni
degli uomini piú giovani avevano cercato di imitarlo in quell’abitudine
di fare tutto a mani nude, magari sperando in un sorriso di
approvazione o un cenno di compiacimento, ma i loro tentativi erano
passati inosservati e alla fine erano tornati a usare i guanti.
«Consultate il vecchio Libro dei Desideri?».
«L’hai detto, Phil» rispondevano, fieri di chiamarlo per nome, poi
richiudevano in fretta il catalogo con la scusa della conversazione,
per non farsi vedere a spasimare sulle modelle che presentavano
corsetti e biancheria intima. Come ammiravano il suo distacco!
Possedeva metà del ranch piú grande della valle, e avrebbe potuto
permettersi tutto quello che voleva, qualsiasi automobile, una Lozier
o una Pierce-Arrow, per esempio, eppure se ne infischiava delle
automobili. Suo fratello George una volta aveva espresso il desiderio
di comperare una Pierce, e Phil gli aveva detto: «Vuoi passare per
un ebreo?». E con questo l’argomento era stato liquidato. No, Phil
non guidava. La sua sella, appesa per una staffa a un piolo nella
lunga stalla fatta di tronchi, aveva i suoi buoni vent’anni; gli speroni
erano di semplice acciaio, non avevano applicazioni in argento, non
erano quel genere di speroni che affollavano i sogni degli altri;
invece degli stivali usava scarpe normali, disprezzava i fronzoli e le
guarnizioni dei cowboy, anche se in gioventú era stato un ottimo
cavallerizzo e ancor piú abile di George col lazo. Nonostante i soldi e
il prestigio della famiglia, era una persona semplice, si vestiva come
un qualsiasi bracciante, in salopette e camicia di cotone azzurra; tre
volte all’anno George lo accompagnava in macchina a Herndon a
tagliare i capelli; sedeva davanti sulla vecchia Reo, impalato come
un pellerossa dentro l’abito da città altrettanto rigido, il naso aquilino
imperioso sotto la tesa di feltro antracite, la mascella serrata. Allo
stesso modo sedeva sulla sedia da barbiere di Whitey Judd, con le
lunghe mani segnate e sottili, immobili sui braccioli freddi, mentre i
capelli cadevano a mucchi sul pavimento di piastrelle bianche.
Una volta un commesso viaggiatore, un damerino con la spilla da
cravatta luccicante, ridacchiando aveva domandato a Whitey chi
fosse.
«Fossi in lei non riderei, signore» lo aveva redarguito Whitey.
«Quello se lo può comprare e vendere cinquanta volte, uno come lei.
Lei, e chiunque altro nella valle, a parte il fratello. Io sono orgoglioso
di averlo qui da me, molto orgoglioso». Zic, zic, zic. «Lui e il fratello
sono soci».
Lo erano, e piú che soci, piú che fratelli. Cavalcavano insieme
quando bisognava radunare il bestiame, parlavano tra loro come se
si vedessero per la prima volta, discorrevano dei vecchi tempi alle
scuole superiori e all’università della California, dove George, a dire
la verità, era stato respinto lo stesso anno in cui Phil si era laureato.
Phil ricordava gli scherzi che faceva agli studenti, le vecchie
amicizie... la baldoria. Phil era uno brillante, George uno sgobbone.
Era sempre di comune accordo che decidevano la vendita dei
manzi in autunno o l’acquisto di uno stallone Morgan per
incrementare i capi da sella. Ogni anno Phil aspettava con ansia il
momento della caccia che arrivava in ottobre, quando i salici lungo i
torrenti diventavano rosso ruggine e le nebbioline dei fuochi lontani
tra i boschi rimanevano sospese come veli sulle cime dei monti.
Allora li si vedeva cavalcare insieme nella prateria in direzione della
montagna, con i cavalli da soma al seguito, Phil con la carabina a
canna corta o con la calibro trenta. Era insolito trovare un legame
cosí tra fratelli, Phil alto e spigoloso, che con gli occhi azzurro cielo
guardava lontano o scrutava il terreno circostante; George
corpulento e imperturbabile, che gli trottava al fianco su un baio
anch’esso corpulento e imperturbabile. Scommettevano: chi avrebbe
visto e colpito il primo alce? Phil andava matto per il fegato d’alce.
La notte si accampavano ai margini del bosco e sedevano a gambe
incrociate di fronte al fuoco a parlare dei tempi andati e del progetto
per la nuova stalla, che non si concretizzò mai perché comportava
l’abbattimento della vecchia; srotolavano i sacchi a pelo sistemandoli
vicini, e insieme ascoltavano nel buio la canzone di un minuscolo
ruscello, non piú largo del passo di un uomo, alla sorgente del fiume
Missouri. Dormivano, e quando si svegliavano trovavano la brina.
Era cosí da anni, e Phil aveva appena compiuto i quaranta. E cosí
continuavano a dormire nella stanza che avevano da ragazzi, negli
stessi letti di ottone, che adesso cigolavano nella grande casa di
tronchi, da quando quelli che Phil chiamava i vecchi se n’erano
andati a passare l’autunno della vita in una suite del migliore albergo
di Salt Lake City. Là il Vecchio Signore giocava in borsa e la Vecchia
Signora giocava a mah-jong e si cambiava per la cena, come aveva
sempre fatto. Definitivamente chiusa, la camera dei vecchi era
rimasta ad accumulare la polvere sollevata dalle automobili – ogni
giorno piú numerose – che arrancavano tossicchiando sulla strada di
fronte a casa. In quella stanza l’aria si era fatta stantia, i gerani della
Vecchia Signora erano morti, la pendola di marmo nero si era
fermata.
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