Il più grande criminale di Roma è stato amico mio – Aurelio Picca

SINTESI DEL LIBRO:
Oggi il lago è fatto d’acqua che non pare acqua. Ci sono lastre
con paperelle bianche e zebrate. Sono le correnti a creare brividi di
metallo su pelle liquida. Una volta era una gabbia toracica che
respirava da atleta. Negli anni il livello si è abbassato mostrando la
terra un tempo sommersa. Penso che il cono del vulcano stia
risucchiando acqua. Una specie di gola arsa che si disseta. L’ho
percepito fin da ragazzino quando mia madre si svestiva tra i
boschetti e io non volevo seguirla. Infatti, pur essendo nato sulla
riva, non mi sono mai tuffato. Per me il lago Albano è la morte.
Eppure ci vivo. Forse perché mi offre gli ultimi anni che merito o rubo
a me stesso. Ma potrebbe finire anche domani, se intrappolo il
cinghiale che dico io e gli sparo in fronte.
La vecchia discoteca Il Pozzo sta a sinistra dopo la ferrovia che
porta a Roma. La frequentavano ladroni, corridori di moto truccate e
ragazze che sono state cancellate dal tempo o si sono sposate e ora
sono nonne. Di fronte, sulla rotonda, c’è il bar La Lampara. Subito a
destra il rudere della tribuna da dove si potevano vedere le gare di
sci nelle Olimpiadi del ’60. Da costruzione perfetta si è stinta, si sono
staccati i pezzi, è arrivata la ruggine. È una dentiera sfasciata. L’ho
vista diventare vecchia anno dopo anno. Sembra mia sorella
gemella. Ora è un pezzo di ferro fradicio, però le sono affezionato. È
la cosa che mi piace di più. Oltre, c’erano strada e lago e qualche
spiaggetta deserta. Adesso è pieno di ristoranti e stabilimenti che
affittano canoe e un sacco di stronzate. Poi c’è un mucchio di gente
che corre e fa l’intero giro dove prima metteva paura entrare sotto gli
alberi e il fogliame. È cambiato tutto e mi fa schifo.
Da un po’ penso di scrivere. Non sono uno scrittore. Sì, ho letto
libri e ho frequentato scuole a casaccio. Sono nato qui vicino, a
Rocca di Papa, sui Campi di Annibale da dove il lago si vede per
quello che è: un cerchio pieno di liquido. Mi chiamo Alfredo Braschi e
non sono più giovane, però ancora forte. Un uomo che ha la vita
rivoltata come lo stomaco. Uno che non sa cosa farsene della vitalità
e del testosterone che gli sono rimasti. È così. Quest’uomo ormai è
pronto a uccidere o a morire. Fa lo stesso. Se uccido, morirò. Se
morirò è perché la vita o qualcuno al suo posto mi ammazzerà.
La mia famiglia, a Rocca di Papa, commerciava in bestiame. Sui
Campi di Annibale aveva i cavalli. Adesso c’è un maneggio; non è
più mio. Ho venduto anche la casa di mio nonno dentro il bosco,
verso Monte Cavo da dove si vede, attaccato all’Albano, il lago di
Nemi. L’ho amato tanto. Nemi è il mio lago. Quando da piccolo mi
arrampicavo sulla cima del Monte posseduto da Giove, mi veniva da
pensare che i vulcani avrebbero potuto scoppiare da un momento
all’altro, anche se erano diamanti neri. “Fanno bum,” mi diceva il
nonno all’orecchio. “Fanno bum, Alfredo. E si alza un fuoco che
divora i Castelli Romani e Roma.” Mi ha cresciuto il nonno Leopoldo
quando mio padre morì giovane e mia madre se ne andò di casa
inghiottita dal nulla.
Vivo in questo alberghetto che si chiama Miralago. Lo specchio
d’acqua sta dall’altra parte della via. È tra Rocca di Papa, il paese di
Castel Gandolfo e Albano. Tutto in pochi chilometri. Da Roma ci si
può arrivare dalla strada dove da decenni imbecilli di ogni tipo vanno
a sperimentare l’effetto magnetico delle loro automobili che a motore
spento proseguono in discesa quando invece il tratto è in salita. Non
ho più niente. Sul conto corrente mi è rimasto un tot che finirà tra
non molto. Possiedo soltanto una pistola Beretta calibro 6,35
appartenuta a mio padre, un revolver calibro 9 a spillo di un amico, e
la pistola con la quale ammazzavano tori, mucche e cavalli ai
mattatoi comunali di Marino e Albano. È di ottone massiccio, tozza;
si carica con una cartuccia a salve calibro 22, che fa partire la molla
affinché un chiodo lungo una quindicina di centimetri scocchi e si
infili nella testa dell’animale per centrare il cervello e subito dopo
ritrarsi. Nello scatto è un serpente velenoso. Rassomiglia a una
mitraglietta Mac-11, la porto sempre con me. È con questa che
ucciderò quando arriverà il momento.
Non mi sono mai sposato. Non ho figli. Anzi, molto giovane mi
nacque una bambina. Di figli avrei potuto averne molti. Però le
donne hanno abortito.
Dell’ammazzare e dunque della morte non è che sia digiuno. Alle
macellerie dei miei familiari, ogni settimana serviva carne fresca. Le
mucche erano spinte e tirate mentre orinavano e cacavano. Avevano
occhi di albume. Pareva si sforzassero per piangere. I cavalli
scalciavano; i macellai gli piazzavano colpi con un bastone al ventre.
Un giorno un baio si impennò. A momenti con gli zoccoli si
incastrava alle catene e alle corde che tenevano al centro la
carrucola. Quando lo scannatore puntava la pistola sulla fronte e
sparava, l’animale cadeva fulminato e gli si riempiva la faccia di
schiuma. Finiva di pisciare un liquido verdastro che raggiungeva il
tombino della fogna. Poi cavallo o toro o mucca o abbacchio
venivano issati per le zampe posteriori. Dal ventre squarciato usciva
una massa di tubi morbidi. Erano budella. Mentre gli scortichini
prendevano a incidere la pelle, il sangue era tanto. Dovevano
spingerlo via con il caucciò che schizzava l’acqua.
Le bestie venivano spezzate a quarti e caricate sui camion. Avrò
avuto quattro o cinque anni quando andavo con mio zio Francesco, il
più giovane dei fratelli di mio padre, a consegnare la carne nelle
macellerie del nonno e di altri commercianti sparsi per i Castelli. Mi
ricordo che era bella la piazza di Ariccia con Palazzo Chigi e i banchi
con la porchetta e il pane di Genzano. Prima che costruissero il
ponte da dove ogni anno la gente si butta di sotto come volesse
tuffarsi in un altro lago che ora non c’è più, un lago nato dentro un
altro cratere di vulcano che da sempre si chiama Vallericcia. Ecco, là
tra i boschi passava l’antica via Appia. Un facchino di mio nonno,
quando ero piccolissimo, mi ci portò e mi fece aspettare nel camion.
Proprio sotto le arcate del ponte c’era una casupola in cui viveva una
cicciona che faceva la mignotta per i poveracci dei Castelli.
Marcaccio entrò da lei e quando tornò per ripartire gli annusai
addosso sangue e un odore di aceto. Non sapevo cosa avesse fatto
con la cicciona, né allora immaginavo che al riparo del ponte dove
sbattevano il capo gli angeli suicidi ci fosse la troia degli scannatori;
eppure percepii che sangue e aceto avevano a che fare con una
roba forte, una roba che ti fa girare gli occhi. Come mettere insieme
la boscaia, l’altezza del cielo, il ponte ricostruito dai tedeschi durante
la guerra e il vulcano spento che adesso era una valle. Marcaccio
fischiava, si era tirato fino all’omero le maniche della camicia: era
una bestia viva, nata dalla lava di uno dei cento vulcani.
Marino ricordo che era bellissima. Stava su una rupe di pietra
nera e tirava sempre vento. Torno spesso lì anche ora, c’è il mio
amico il Francesino che ha una palestra di boxe e lavora come
bodyguard in una discoteca a Ciampino, sotto il Raccordo Anulare.
Mi accompagna lui a fare giri e mi tiene nascosta una cassa con
gioielli e oro. Regali antichi, di amici che non ci sono più. Anche
l’Infiorata a Genzano mi metteva allegria. Mi spurgava dalla morte
degli animali che avevo visto massacrare, anche se l’odore e la vista
del sangue non scomparivano. La cabina di guida del camion ne era
satura. E quando il facchino Fortunato incollava i cosci o le spalle o
le costate per agganciarli alle pareti di pietra delle macellerie, il
sangue gli colava nella canottiera di lana e impregnava
l’asciugamano con il quale si copriva il collo.
La luce dei paesi dei Castelli era una festa. Tutti ridevano. La
morte sembrava che non ci avesse mai sfiorato. Invece, già allora,
eravamo una banda di criminali. Ora che ci rifletto: la morte di quegli
animali produceva una continua tensione sessuale che si respirava
in ogni cosa. Pareva che la morte spingesse verso il sesso. Luce,
case, bestie, macellai, garzoni, facchini, donne e uomini che
camminavano per strada o che uscivano da negozi e bar erano
incollati alla morte, al sesso e al sangue. E la luce di quei giorni
schizzava orgasmi nell’aria che ricadevano eccitando di nuovo corpi
e menti già pronti per un altro orgasmo; e un altro e un altro ancora.
A proposito di morire, l’altro giorno mi sono ricordato qualche
parola tradotta dal testo della canzone dei Pink Floyd The Great Gig
in the Sky. Anzi, l’ho riletta trovando uno dei tanti biglietti e fogli che
riemergono dal passato o che mi recapitano qui in albergo. Le parole
su per giù dovrebbero essere queste: Non ho paura di morire. In
qualsiasi momento capiterà, non m’importa. Perché dovrei aver
paura di morire? Non c’è ragione. Prima o poi te ne devi andare.
Comunque se avrò fortuna, troverò quel bastardo di cinghiale
schifoso che so io quello che ha fatto. Devo trovarlo per forza. E
sparargli in faccia.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo