Il decoro – David Leavitt

SINTESI DEL LIBRO:
«Vi andrebbe di chiedere a Siri come assassinare Trump?»
domandò Eva Lindquist.
Erano le quattro di un pomeriggio di novembre, il primo sabato
dopo le elezioni presidenziali del 2016, Eva era seduta nella veranda
della casa di campagna in Connecticut insieme al marito Bruce e ai
loro ospiti Min Marable, Jake Lovett e una coppia, Aaron e Rachel
Weisenstein, entrambi editori; Grady Keohane, un coreografo celibe
che abitava nella stessa strada; e un’ospite di Grady, sua cugina
Sandra Bleek, che aveva da poco lasciato il marito e stava da lui
mentre si rimetteva in sesto. Matt Pierce, un giovane amico di Eva
giovane nel senso che aveva trentasette anni – non era lì con loro.
Era in cucina a preparare una seconda teglia di scones dopo aver
buttato via la prima, in cui aveva dimenticato di aggiungere il lievito.
Un clemente tramonto autunnale illuminava la scena, una scena
di comodità e benessere, la veranda riscaldata dalla stufa a legna,
gli ospiti ben sistemati sulle poltrone e il divano di vimini bianco, con
i cuscini che Jake, l’arredatore di Eva, aveva foderato in un chintz di
nome “Jubilee Rose”. Sul tavolo bianco, una teiera, tazze, piattini,
una coppa per la panna e un vasetto di marmellata di fragole fatta in
casa aspettavano gli scones riluttanti.
Eva ripeté la domanda. «A qualcuno andrebbe di chiedere a Siri
come assassinare Trump?»
Dapprima non rispose nessuno.
«È dal giorno delle elezioni che ho una folle urgenza di
chiederglielo,» disse Eva «ma ho paura che se lo faccio lei lo dirà
immediatamente ai servizi segreti e mi arresteranno.»
«Tesoro, non credo proprio...» disse Bruce.
«Perché no?» ribatté Eva. «Possono farlo di sicuro.»
«Cosa, ascoltare quello che diciamo al telefono?» chiese Sandra.
«Non sto dicendo che non siano in grado di farlo,» riprese Bruce
«solo che con ogni probabilità i servizi segreti hanno di meglio da
fare che non monitorare le nostre conversazioni con Siri.»
«Ma dico, sono l’unico qui che si ricorda del Watergate?» disse
Grady Keohane. «E delle intercettazioni telefoniche?»
«Possono essere intercettati anche i cellulari?» intervenne
Rachel Weisenstein. «Pensavo che si potesse fare solo con le linee
fisse.»
«Ma in che secolo vivi?» domandò Aaron a sua moglie.
«Voglio dire, forse se fossimo terroristi» spiegò Bruce. «Se
fossimo una cellula dell’ISIS o qualcosa del genere. Ma un gruppo di
bianchi che bevono il tè in una veranda nella contea di Litchfield?
Non credo proprio.»
«Se è così, fallo.» Eva gli porse il suo telefono. «Domandaglielo.»
«Io però non voglio assassinare Trump» ribatté Bruce.
«Vedi? Sei un coniglio» disse Min Marable. «Vile, vile, vile.»
All’improvviso Aaron ebbe uno dei suoi famosi scatti. «Ma dai»
esclamò. «Vi sentite o no? Voglio dire, guardate cosa vi sta
succedendo. Dite sul serio? C’è o non c’è il primo emendamento in
questo paese? Non abbiamo il diritto di dire quel cavolo che ci
pare?»
«A meno che non sia incitamento all’odio» precisò Rachel.
«Me ne fotto dell’incitamento all’odio» ribatté Aaron.
«Per quanto mi riguarda, io non sarei propensa a correre il
rischio» riprese Min. «E tu, Jake?»
«Io?» rispose Jake che non era abituato a venir interpellato in
quelle occasioni. «Non è che non lo farei per paura. Insomma, non lo
farei, ma non perché ho paura.»
«Ma se anche tu riuscissi a ucciderlo, servirebbe a qualcosa?»
domandò Sandra. «Diventerebbe presidente Pence. Potrebbe
persino essere peggio.»
«Non stiamo parlando di ucciderlo davvero» disse Grady.
«Stiamo parlando di chiedere a Siri come farlo. C’è una grande
differenza.»
«Vuoi dire che è una sorta di esperimento mentale» replicò
Sandra.
«Oh, per l’amor di Dio» esclamò Aaron; tirò fuori il cellulare dalla
tasca della giacca, premette il tasto home e scandì: «Siri come
faccio a –».
«No, non lo fare.» Rachel glielo strappò di mano. «Non te lo
permetto.»
«Chi, io?» chiese Siri.
«Dammi il mio telefono» disse Aaron.
«Potrebbe essere al di fuori delle mie possibilità al momento»
rispose Siri.
«Soltanto se prometti di non farlo» insistette Rachel.
«Rachel, te lo sto chiedendo con gentilezza» riprese Aaron.
«Ridammi il telefono.»
«No.»
In quel momento Matt Pierce arrivò nella veranda con gli scones.
«Scusate il ritardo» disse. «Il servizio riprende regolarmente... che
succede?»
«Conto fino a dieci» disse Aaron a Rachel. «Uno, due, tre...»
«Ecco, prenditelo» esclamò Rachel. «Riprenditi questo dannato
aggeggio.»
Gli lanciò il telefono e corse in casa.
Tutti guardarono Aaron.
«Be’?» disse lui.
«Non hanno un profumo delizioso questi scones?» chiese Eva.
«Ma ho paura che il tè sia diventato troppo forte.»
«Lo rifaccio» si offrì Matt, rientrando dalla porta che conduceva in
cucina.
2
Nell’inverno del 2016, Eva Lindquist aveva cinquantasei anni, ma
dimostrava dieci anni meno. Sebbene fosse alta, non dava
l’impressione di esserlo, forse perché Bruce, suo marito, la
sorpassava di parecchio, essendo quasi un metro e novantotto. A
causa del suo cognome, molte persone pensavano che fosse di
origini scandinave, impressione che lei faceva poco per smentire e
molto per coltivare, soprattutto con quelle trecce avvolte intorno alla
testa.
Lei e Bruce non avevano figli. Condividevano invece le loro case– l’appartamento su Park Avenue e la casa di campagna in
Connecticut – con tre terrier Bedlington, quei cani che assomigliano
ad agnelli o a foche, con un mantello biancoazzurro che sembra di
piume, la schiena curva e la coda lunga e affusolata. Quelli che
avevano in quel momento erano la seconda generazione, tutti della
stessa cucciolata come i loro predecessori, e come loro chiamati con
i nomi di personaggi di Henry James: Caspar, Isabel e Ralph.
A differenza di Bruce, Eva era nata e cresciuta a New York. I suoi
genitori, cosa che lei non pubblicizzava né celava, erano ebrei
polacchi.
Kalmann. Eva Kalmann.
Bruce veniva dal Wisconsin. Era luterano. Per quattro decenni
suo padre era stato il principale ostetrico di Oshkosh, e in quella
funzione aveva aiutato a venire al mondo due senatori dello stato, un
attaccante della National Football League, e un cantante del
Lawrence Welk Show. Bruce stava per compiere ventiquattro anni e
frequentava il terzo anno alla Harvard Business School quando
aveva incontrato Eva, allora all’ultimo anno alla Smith. Nelle foto del
loro matrimonio non si somigliavano affatto, il che sorprendeva i loro
amici, che ripetevano sempre che avrebbero potuto essere fratello e
sorella. Avevano entrambi la pelle chiara che si bruciava prima di
abbronzarsi, i capelli dello stesso biancoazzurro del mantello dei loro
cani, e occhi che esprimevano un’incertezza più grande di quella a
cui entrambi erano soliti dare voce.
«È straordinario come le coppie finiscano per somigliarsi»
dicevano i loro amici, ma in realtà intendevano: «È straordinario
come lui abbia finito per somigliarle».
Jake Lovett li aveva conosciuti alla fine degli anni Ottanta,
quando si erano appena trasferiti in un nuovo appartamento,
qualche isolato più su di quello in cui vivevano nel 2016, ed Eva
aveva chiesto al socio di Jake, Pablo Bach, di arredarlo. Dal
momento che Pablo considerava le case in affitto non alla sua
altezza, aveva passato quel lavoro a Jake, facendo la sua fortuna,
come si capì in seguito, perché quando l’edificio si trasformò in un
condominio ed Eva e Bruce comprarono un appartamento più
grande a un piano più alto, chiamarono lui, e non Pablo, a occuparsi
della ristrutturazione.
Da allora avevano traslocato altre due volte, vendendo sempre
con profitto. Quegli appartamenti erano stati tutti arredati da Jake,
proprio come aveva arredato la serie di case di campagna – a
Rhinebeck, a Bedford, nella contea di Litchfield – che i Lindquist
avevano comprato e rivenduto man mano che il reddito di Bruce
aumentava. Il loro ambiente era familiare a Jake – ricchi liberal di
New York, non di vecchia famiglia ma neppure degli arricchiti, e di
certo ben lontani dall’aristocrazia della città come i Whitney, i
Vanderbilt e gli Astor, nei cui salotti dominava Pablo. Con qualche
notevole eccezione, quella gente non si dava un tono intellettuale
non ne aveva bisogno – mentre Eva amava considerarsi
un’animatrice di salotti, e come tale organizzava frequenti cene, tè e
fine settimana ai quali invitava un’accozzaglia di uomini gay, donne
sole di mezza età, coppie sposate che avevano vagamente a che
fare con l’arte – editori, curatori, agenti – e di tanto in tanto qualche
anziana signora sulla quale, quando era ubriaca, si poteva contare
per racconti audaci su gente famosa ormai defunta.
Non c’erano artisti veri e propri. Gli artisti la spaventavano. A
meno che Jake non venisse considerato uno di loro, cosa che
peraltro lui riteneva improbabile da parte di Eva.
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