Il delitto ha le gambe corte – Christian Frascella

SINTESI DEL LIBRO:
Anche tu da queste parti, Contrera? – mi chiede Eddie. Riesco a
malapena a distinguere le sue parole, c’è un tale casino qui in corso Vercelli
che vorrei infilarmi i tappi nelle orecchie.
È la festa di Barriera. Donne e uomini di tutte le etnie si sono ritagliati un
posto, ognuno sviluppa un baccano diverso. I balli sardi risultano piú mosci
rispetto a quelli dell’est Europa. I rumeni ci danno dentro con i fiati e sono
sballati dalla birra e da chissà che altro. I colori dei costumi accecano.– Sono con mia sorella e mia nipote. Fosse per me, sarei rimasto a casa. O
in ufficio.
Eddie non si chiama proprio Eddie, ma la gente lo ha soprannominato cosí
perché pare abbia la stessa risata di Eddie Murphy, anche se io non l’ho mai
sentito ridere. È alto quasi uno e novanta, e adesso mi si avvicina rifilando
una mezza spallata a un magrebino che all’inizio se la prende, ma poi ne
considera la stazza e finge che non sia successo niente. Eddie è nigeriano,
nero come il carbone o come la notte in una miniera di carbone, ma lui si
sente italiano. È nato qui da genitori fuggiti dai signori della guerra.– Chiamalo ufficio, il tuo, – mi prende in giro.
Sono un investigatore privato con regolare licenza, ma non guadagno
abbastanza per potermi permettere un ufficio. Perciò ricevo i miei clienti in
una lavanderia a gettoni in corso Giulio Cesare, quella del mio amico
Mohamed. La gente viene a chiedermi favori, e io glieli faccio, per la solita
paga piú le spese, come canta Mark Knopfler. Di solito si tratta di corna,
uomini in costante stato di arrapamento e donne che vogliono svagarsi un
po’.– Tu vivi sempre in quella cazzo di scuola occupata? – gli chiedo.– Nah. Ora ho preso una stanza in corso Taranto perché ho un lavoretto.
Ma se hai bisogno di me, Contrera, basta che sganci il giusto e sono tuo.
Mi ha aiutato nel peggiore dei casi su cui ho investigato. C’erano di mezzo
dei morti ammazzati.– Lo terrò a mente.
Cerco con lo sguardo mia sorella Paola e mia nipote Giada. In tutto questo
macello, le ho perse di vista da almeno venti minuti. Inghiottite dalla folla
festante.– Che poi che cazzo ci sarà mai da festeggiare in questo quartiere di
merda, – fa Eddie come concludendo una lunga riflessione.– La vita? – ribatto.
Mi osserva un attimo. – Amico, io sono diplomato in ragioneria e faccio lo
sguattero in un ristorante indiano, lavo i piatti e pulisco le porcherie della
gente. Non prendermi per il culo.
Gli sorrido. – Come sei negativo. Quanti anni hai, trentadue?– Embè?– Ce li avessi io. Non che invidi il tuo fisico, ma…– Vaffanculo, Contrera, – taglia corto lui. E un istante dopo il suo testone
coi dread lanosi e le sue spalle da scaricatore tagliano come un rasoio nugoli
di persone assiepate.
Mi muovo nella direzione opposta, verso piazza Rebaudengo, e ancora
non riesco a individuare le mie ragazze. Qui ci sono le sudanesi che ballano
mezze nude sotto vestitini leggeri e calzando zoccoli rumorosi. Un giovane
invasato con la cresta picchia le mani sui bonghi e i ballerini si scatenano al
centro, assieme a tutti gli astanti.
Provo anch’io qualche mossa, ma gli anfibi mi impediscono di sfoggiare
tutto il mio talento. Mi sembra di notare che una ragazza sui vent’anni,
bionda come l’oro colato, sghignazzi nella mia direzione.
Mi indico col pollice.
Lei annuisce, e ride.
C’è qualcosa in quel sorriso che mi fa frizzare la gola e sballare i sensi.
Indossa una minigonna che scopre due cosce bianche e levigate, ha polpacci
allenati da runner, seni piccoli e collo lungo, come le braccia. Segue il ritmo
dei bonghi facendo su e giú con la testa, i capelli le giocano sul viso. Sorride
ancora. A me.
Faccio per avvicinarmi ma poi mi rendo conto che probabilmente ho il
doppio della sua età. Questo fa di me un suo padre in potenza. Potrei averla
concepita a vent’anni, storia d’amore tra giovani non specializzati
nell’interruptus.
E poi, secondo pensiero che mi fa lo sgambetto: io ho davvero una figlia.
Di quasi sedici anni.
Perciò decido di voltarmi e andarmene. Solo che lei mi raggiunge a passo
di danza, muovendosi persino meglio e con piú carica sensuale delle
sudanesi. Resto immobile ad aspettarla, è piú forte di me.– Gran ballerino, – dice con l’accento americano. Da vicino sembra ancora
piú giovane, gli occhi sono verdi e le pupille ruotano come biglie nella sclera.– Dove hai imparato?
Imparrauto, pronuncia.– Un po’ qua e un po’ là, sono richiestissimo per addii al nubilato e
diciottesimi, – rispondo con fare accattivante. – Conosco quasi tutti, qui nel
quartiere. Non ti ho mai vista in giro. Me ne ricorderei –. Che frase da
provolone affumicato, ma non mi è venuto niente di meglio. – Vieni da
qualche altro punto della città o direttamente dal paradiso?
Lei sorride ancora. Gli angeli hanno una dentatura simile, secondo me.
Sono in Barriera da qualche mese. Condivido un appartamento con una…
tizia. Ho preso un anno sabbatico dopo il college –. Sabàticou.– Uao. E tra tanti posti, proprio Barriera?– Qui c’è piú vita che in centro –. Indica nel caos attorno.– Quando arriveranno le nebbie di novembre cambierai idea.– Io sono di Brooklyn, amico, conosco la nebbia.
Siamo a mezzo metro. Vorrei avere i capelli tinti invece di questo
brizzolato pre-cassa da morto; una faccia liscia senza tutte le mie rughe di
passioni andate a male; un fisico senza acciacchi.
Eppure sono sul punto di chiederle come si chiama e d’invitarla a bere
qualcosa al bar di Sergione quando intravedo il cinese.
Long Lai. O almeno è cosí che si fa chiamare.
Non mi aspettavo che fosse tanto imbecille da farsi un giro alla festa di
quartiere. Come l’ho visto io, poteva beccarlo sua moglie.– Scusa un attimo, – dico alla ragazza nella sana speranza di non
incontrarla mai piú, ma qualcosa tra la bocca e il bacino (piú verso il bacino)
mi fa aggiungere: – Potresti aspettarmi qui? Torno subito.
Lei s’incupisce, di sicuro non l’hanno mai piantata in asso dopo un minuto
di conversazione. Ma è anche incuriosita.
Mi allontano procedendo all’indietro, strizzandole l’occhio. Per compiere
questa operazione assai seduttiva, però, inciampo in uno zaino e sto per
perdere l’equilibrio. Resto sospeso tra la terra e il nulla per mezzo secondo,
poi qualcuno mi afferra prima che finisca col culo sull’asfalto.– Attento, bello, – dice una voce roca, mentre due mani mi sostengono
sotto le ascelle. La ragazza americana si apre in un altro sorriso,
insopportabile. Mi riallineo alla forza di gravità e faccio per ringraziare il mio
salvatore. Emiliano Macchi, trent’anni trascorsi per metà in galera, e per metà
a spacciare in una traversa di via Cigna. Muscoli, tatuaggi, orecchini e tutto
l’armamentario da duro.– A momenti Barriera perdeva il suo segugio numero uno.– Grazie, Macchi.– Pregone, Contrera.
Mi è sempre stato sulle palle.
Lui s’allontana e raggiunge la ragazza americana che sembra parecchio
infastidita. Si conoscono, perché Emiliano la bacia in fretta sulle guance,
mentre lei storna lo sguardo. Cosa posso dedurre da una scena del genere?
Che ho altro da fare.
Long Lai è ancora fermo tra la folla accanto all’imbocco di via Verres. Sta
osservando i suoi compatrioti danzare alla melodia di uno strumento a corde
che non ho mai visto. Le ballerine hanno cappelli di paglia e lunghe vesti
rosse. Long batte le mani a un ritmo che non sento, lo conoscono solo loro.
Scarto gli astanti passando dall’esterno, raggiungo il marciapiede opposto
e seguo i movimenti del mio uomo. «Uomo» forse è un termine esagerato per
un cinese smilzo che porterà sí e no la quaranta e ha piedi e mani piccoli, da
bambino. Solo le sopracciglia sono spesse, incurvate con ostinazione.
Mi basterà camminare lentamente fino alle sue spalle, quindi gli arpionerò
i fianchi e lo trascinerò a peso morto dove possiamo parlare. Ha abbandonato
il tetto coniugale tre mesi fa, dopo che il suo ristorante in via Boccherini è
stato chiuso dai servizi d’igiene. Pare ci fossero dei topi che aiutavano i
cuochi a cucinare.
Ciò che provoca il mio odio verso Long Lai è che nel suo ristorante ci ho
mangiato anch’io un annetto fa. Di notte sogno scarafaggi al vapore e nuvole
di drago con falene arrostite dentro. Perciò, quando la moglie Jin è venuta a
chiedermi di rintracciare il marito, il quale non passa soldi da tre mesi a lei e
ai suoi quattro figli piccoli, il caso è diventato anche una questione personale.
Mi muovo come una nottola tra le fronde degli alberi in estate, con
apparente indifferenza ma motivato da precise intenzioni. Sono alle spalle di
Lai. Sta ancora battendo le mani quando congiungo le braccia attorno al suo
stomaco e lo trascino via.
All’inizio si irrigidisce e si lascia portare come un bagnante da un’onda
impetuosa. Non capisce e dice qualcosa nella sua lingua.– Mi manda tua moglie, – ribatto. E anche quelle cazzo di blatte che mi
hai fatto mangiare.
Fa un verso di resa. Sono troppo piú grosso di lui, uno e settantatré per
ottanta chili contro un corpo che non ha consistenza umana. Senza ciccia,
senza muscoli, forse anche senz’anima. Uno e sessanta, e sto esagerando, per
zero chili. Lo porto con me in via Verres senza permettergli di girarsi,
arretrando insieme come avantreno e treno sulle rotaie.
Incrocio una decina di sguardi incuriositi, ma ricambio con un’occhiata
alla Fatevi I Cazzi Vostri, Io Sono Contrera. Il piú bastardo tra i detective
privati di Barriera, anche se non ho grossi termini di paragone essendo
l’unico sbirro senza uniforme del quartiere.
Arrivati a un cassonetto decido di allentare la presa e questo cosetto
affusolato allarga il gomito puntuto e me lo sbatte sul mento. Lo mollo, vedo
le stelle e i pianeti dell’intero universo, le aurore boreali mi accecano, ascolto
il richiamo di sciamani nel ventre dei deserti lontani e resto a toccarmi il
mento che pulsa al ritmo dei bonghi sudanesi.
Dopo un’ora di pura incoscienza e dolore vedo la camicia bianca di Long
Lai svoltare in via Leiní, cinquanta metri piú avanti. Okay, saranno passati
dieci secondi, se non gli vado dietro subito me lo scordo per sempre. Parto
all’inseguimento con tutto l’odio che ho in corpo e otto secondi dopo sto
svoltando anch’io in via Leiní. Solo all’ultimo vedo un passeggino con dietro
una mamma che sbuca dalla via parallela, e faccio una roba che mai nella
vita: salto carrozzella e pupo manco fossi Edwin Moses nei beati anni della
sua imbattibilità. La madre urla alle mie spalle, prima di spavento e poi di
rabbia, mi chiama stronzo o qualcosa di simile.
Ma io ho un lavoro da portare a termine, e il mio lavoro sta quasi correndo
in mezzo al traffico senza piú sprint ma con passo incessante, dribblando le
auto che gli strombazzano addosso.
Ce l’ho a quattro metri. Tre metri. Due. Uno.
Lui inchioda e aspetta che lo superi, mi pianto anch’io e barcollo un po’
mentre lo vedo infilarsi in una via laterale di cui non ricordo il nome ma della
quale so tutto il resto: è una strada chiusa, Long Lai si è infilato in un vicolo
cieco.
Ci sono auto in doppia fila, portoni chiusi, due bambini che palleggiano
con un pallone mezzo sgonfio e un muro che chiude la via come una sentenza
di colpevolezza.
Cerca di aprire un paio di box auto, ma quelli niente, rimangono immoti
nella loro verticalità indifferente. Lai raggiunge il muro alla fine del vicolo.
Osserva la situazione, impotente, e si volta verso di me. Io avanzo,
riprendendo fiato e tastandomi il mento ammaccato. I bambini si fermano a
guardarci.– Long Lai, sono un investigatore privato, – gli dico quando sono a pochi
passi dalla sua figura gialla, emaciata e arresa. – Sei sparito da tre mesi, tua
moglie Jin vuole sapere che fine hai fatto –. Ora siamo vicinissimi. – Hai
lasciato lei e i tuoi figli senza un euro per pagare l’affitto. Devi passarle
qualcosa, o ti denuncerà per abbandono del tetto coniugale.
Finalmente parla. – No soldi –. Alza le spalle come se quel gesto spiegasse
tutto. – Dispiace.– E perché li hai mollati cosí? – sfiato, ancora non mi sono ripreso.– Selvizi igiene chiuso mio listolante.
Ho letto da qualche parte che imitare la parlata italo-cinese sostituendo la
R con la L è un mezzuccio da avanspettacolo. Che in realtà loro non parlano
cosí. Be’, io sono nato e cresciuto in Barriera e da quando ho memoria dei
cinesi di qui li ho sempre sentiti esprimersi con molte L e nessuna R.– Lo so che t’hanno chiuso il ristorante, Long. In cucina ci allevavi i
millepiedi.
Non capisce la battuta. Devo limitarmi ai fatti.– Però io sono qui per proporti due vie d’uscita: la prima, torni a casa da
Jin e trovate insieme il modo di pagarmi la parcella. La seconda, mi dai mille
euro, io ne intasco trecento, gli altri li porto a Jin e le dico che non hai piú
intenzione di tornare a casa, che vuoi cambiare vita e darti alla fisiognomica–. Per quello che me ne frega.– Io velgogno. Io pelso tutto. Non tolnale –. Stringe le mascelle per
rimarcare il suo proposito. I bambini alle mie spalle riprendono a palleggiare.
Siamo solo due tizi strani che parlano sottovoce in un vicolo.– Guarda, bello, non m’interessa –. Distolgo lo sguardo dai suoi occhi
lucidi. – Sto solo facendo il mio lavoro.– Io velgogno, – la voce gli si incrina sui cardini della disperazione.
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