Il cofanetto delle antiche memorie – Patrizia Ferretti

SINTESI DEL LIBRO:
Ventuno gradini da salire uno alla volta, meccanicamente, senza
mai chiedersi, prima di quel momento, quante volte l’avessi fatto
nella vita.
Questo bizzarro pensiero mi colse all’improvviso, e mi sorpresi a
considerare che fosse strano domandarselo proprio in quel
momento, ma, forse, quella sciocca riflessione serviva solo ad
evitare di chiedermi perché fossi lì.
Negli ultimi due anni quei ventuno scalini li avevo consumati, saliti
a due alla volta, di corsa, con il cuore in gola e con la paura di
trovarmi di fronte a ciò che, inevitabilmente, avrei visto un giorno.
Arrivata in cima alla scala, girando la chiave nella porta, pensai
che avrei preso più volentieri due schiaffi piuttosto che entrare, ma
decisi di farlo ugualmente.
Tuttavia, mi concessi ancora un attimo di tempo, respirando più
profondamente prima, quasi tentando l'apnea in seguito, e
finalmente spalancai la porta.
Quel giorno non mi attendeva l’odore del pavimento appena
lavato, o il profumo dei panni stesi dalla ragazza che mi aiutava ad
occuparmi di mia mamma da quando si era ammalata.
Non c’era nessuno ad aspettarmi; nessuno che mi dicesse di
entrare; per la prima volta ero da sola perché mia madre se n’era
andata.
Il
sole di fine ottobre che filtrava ancora con prepotenza dalle
persiane chiuse sembrava non bastarmi e così decisi di aprirle tutte,
iniziando dalle camere per poi passare a quello che chiamavamo
guardaroba, lasciando per ultime le persiane del soggiorno.
La luce, di nuovo liberata, invase la stanza illuminando la sua
poltrona, il televisore, e Ciccio Bello, ricordo della mia infanzia che,
negli ultimi tempi, era diventato il bambino di mia madre.
Le cose che aveva usato in quella stanza, unico spazio vissuto da
mia madre oltre la camera da letto, erano tutte dove le aveva
lasciate appena una quindicina di giorni prima.
«Allora, cominciamo con la dispensa», dissi ad alta voce tentando
disperatamente di dare un senso alla mia presenza e colmare, con
le parole, il vuoto che sentivo intorno.
Andai in cucina, aprii la dispensa e iniziai a tirar via tutto ciò che vi
era rimasto dopo la prima veloce ricognizione.
Prendevo in mano una cosa, la chiamavo per nome e decidevo il
da farsi.
All’ennesimo barattolo di conserva mi ero già stancata di quella
cernita che, in fondo, poteva essere evitata.
Avevo voglia di fare quel lavoro quanto di andare a piedi scalzi, di
notte, a Barberino di Mugello; interrompere all’istante era l’unica
cosa che volessi davvero fare.
«Basta», pensai, «metto tutto nel cesto e porto via.»
Mio marito, che pazienza ne ha da vendere rispetto a me, avrebbe
occupato volentieri il tempo separando ciò che dovevamo tenere da
ciò che non serviva.
Mi trovai, ben presto, mentalmente stanca del silenzio di quelle
mura al quale non ero abituata.
Mia mamma, da molti anni, aveva l'abitudine di tenere tutto il
giorno la televisione accesa e a volume molto alto perché aveva seri
problemi di udito nonostante gli apparecchi acustici che indossava.
Mi sembrò, quindi, una buona idea, per poter continuare a fare
qualcosa, tornare in salotto e dare vita a quel grande televisore muto
da troppi giorni.
Appena si accese, mi sentii meno sola e le mie energie ne furono
rinnovate così dissi a me stessa che dovevo farmi forza e fare un
po’di pulizia.
Dopo un paio di ore avevo già riempito tre sacchi grandi di carte,
giornali, riviste e aggeggi che mia mamma conservava e che non
erano di alcuna utilità.
Trovai persino il mio zuccotto da coccinella, ancora perfettamente
incartato in un foglio di carta velina, così me lo provai, scoprendo,
ovviamente, che mi occupava un decimo di testa.
Risi e ripensai con affetto a mia madre e alla sua mania di
conservare tutto, perché ogni cosa, anche la più piccola faceva parte
della nostra personale storia.
Mio padre Renato era il maniaco del “teniamo solo cosa ci serve”,
ma mia mamma era riuscita, non saprei proprio come, a conservare
molte cose legate alla mia infanzia.
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