Helena – Ornella Calcagnile

SINTESI DEL LIBRO:
È STRANO come la tranquillità e la quotidianità perdano valore
con il tempo. Si sottovalutano le piccole cose, che per altri invece
sono importanti.
Non avevo capito quanto la mia vita, seppur piatta e imperfetta,
fosse per certi versi fortunata. Ero una ragazza comune, con tanti
sogni da realizzare e tanti dubbi sul futuro.
Vivevo a Londra, vicino a Regent's Park, in un quartiere che era
sempre stato tranquillo da quando ero nata ventitré anni fa.
Mio padre era commercialista, aveva uno studio e gestiva il lavoro
a suo piacimento. Se non gli andava di lavorare, bastava chiudesse
baracca e burattini per tornare a casa a riscaldare il divano. Ormai,
era un pigro ultra-cinquantenne che aveva perso la voglia di
lavorare, ma ancora indeciso sull'andare in pensione. Mia madre,
anche lei sulla cinquantina, aveva un aspetto giovanile, faceva la
segretaria in uno studio legale, un lavoro poco soddisfacente per
una laureata in legge, ma non molto impegnativo e giustamente
remunerato, che lasciava anche spazio per la famiglia, alla quale ha
sempre preferito dedicarsi. Infine, c'era mia sorella minore Irene, una
piccola peste bassina e smilza come un'acciughina, che aveva tutti i
difetti degli attuali adolescenti: un caratteraccio, pessimi modi e
manie di grandezza. Frequentava il liceo e stava perennemente al
telefono con le amiche di scuola, oppure era su qualche chat a
sparlare delle cose successe durante la giornata. Era graziosa,
curava molto il suo aspetto, soprattutto i suoi lunghi riccioli scuri.
Spesso, se non si vedeva per casa, era in bagno ad acconciarsi le
ciocche ricciolute o a farsi qualche trattamento di bellezza. Era
capace di stare ore in bagno davanti allo specchio.
Irene aveva avuto vita facile come adolescente, la strada spianata
su qualsiasi cosa: coprifuoco, appuntamenti e obblighi scolastici. Io
come primogenita avevo faticato per i miei diritti e mi ero sentita
spesso sotto pressione. Ottenere tutto troppo facilmente aveva reso
mia sorella piuttosto viziatella e difficile da gestire, tanto che i miei
genitori si lamentavano spesso in mia presenza del suo
comportamento, cercando in me un appoggio e mediazione; ma ero
attenta a tenermi alla larga da certe questioni. Non volevo
peggiorare i rapporti con Irene, che già erano instabili, data la nostra
diversità e la differenza d'età. Non era il caso di mettere altra legna
sul fuoco.
Riguardo me, che ero un tipo fin troppo tranquillo, potevo definirmi
quasi una ragazza casa e chiesa, se solo fossi stata effettivamente
praticante. Non ero molto religiosa e, probabilmente, per i miei
questo era il mio difetto più grande. Per il resto, non avevo mai dato
un pensiero. Mentre i miei genitori erano contenti di una figlia così
diligente, mia sorella odiava questa situazione perché era spesso
paragonata alla sua super sorella tranquilla e responsabile. Irene e
io a modo nostro ci volevamo bene, anche se ci parlavamo appena.
Lei aveva le "sue cose", io le mie. Litigavamo spesso, la pensavamo
in modo diverso su un'infinità di argomenti; tuttavia, ci saremmo
buttate nel fuoco l'una per l'altra e poi ci salvava l'aver due stanze
separate, perché la convivenza tra due opposti sarebbe stata
infernale.
Io vivevo in un mondo tutto mio fatto di sogni, ma anche obiettivi
concreti: ero una ragazza molto posata. Forse proprio per questo a
volte sentivo la monotonia, la mancanza di novità e di stimoli che mi
lasciava l'amaro in bocca e spesso mi chiedevo se non mi fossi
persa qualcosa in quegli anni. Non mi ero mai ubriacata, non avevo
mai partecipato a un concerto o a un veglione, mai visto l'alba con gli
amici, non avevo mai fatto le ore piccole, sembrava non fossi mai
stata adolescente. Dire che ero insoddisfatta probabilmente era
esagerato ma mi mancava qualcosa, sentivo che non c'era quel brio,
quella scintilla che solitamente fa sentire appagata una persona.
Le cose peggiorarono dopo il liceo: le mie giornate presero a
essere uguali e persi i contatti con quasi tutti i compagni di classe e
per questo le mie uscite si ridussero notevolmente. Durante i corsi
tornavo a casa solo per cena e durante il periodo degli esami
prendevo il ritmo di una catena di montaggio; i giorni trascorrevano
con uno schema orario ben preciso, quasi inverosimile. Solitamente
mi alzavo verso le 8.00, verso le 9.30 iniziavo a studiare, una pausa
a metà mattinata, poi di nuovo a studiare, pranzo, un po' di svago,
ancora a studiare, pausa caffè, di nuovo sui libri fino a cena e, infine,
telefonata con il mio ragazzo prima di andare a letto. Insomma, una
ripetitività davvero pesante. Quando la sera mi mettevo a letto, mi
angosciava l'idea del mattino dopo.
Ormai laureanda, le mie imprese universitarie stavano per
concludersi e, a breve, avrei terminato quel capitolo della mia vita
per iniziarne un altro con il mio ormai fidanzato, nonché futuro
sposo, Manuel. Ero elettrizzata all'idea, ma anche nervosa al
pensiero di questo grosso impegno. Lo amavo e non mi spaventava
l'idea di legarmi a un'unica persona, ma avevo il terrore di
imboscarmi in un'altra routine.
Dal primo sguardo, dal primo abbraccio, dal primo sfiorarsi di
labbra, avevo capito che Manuel era il ragazzo giusto per me e che
mi avrebbe accompagnato all'altare. Era il mio principe azzurro,
come l'avevo sempre desiderato: pelle leggermente abbronzata,
capelli bruni mossi, larghe spalle e fisico snello adatto alla sua
stazza. Era alto quasi due metri, proprio un gran ragazzone. Il viso
era dolce, il naso perfetto, le labbra carnose e morbide. Che cosa
avrei potuto desiderare di più? Direi proprio nulla.
Manuel è stato il mio primo vero ragazzo, escludendo uscite e
frequentazioni poco proficue al liceo. L'ho conosciuto in stazione
mentre stavo tornando a casa con il mio pacco di dispense. Era un
orario cruciale, pausa pranzo, uscita di scuola, c'erano persone che
sbucavano ovunque e ragazzi scalmanati che correvano e si
muovevano senza prestar attenzione. Ero continuamente spintonata,
come se la gente avesse i paraocchi. Per un attimo pensai di esser
diventata trasparente. All'ennesimo urto, una spallata degna di un
lottatore di sumo, la mia cartellina strapiena di fogli cadde e sembrò
quasi esplodere all'impatto col suolo.
«Maledizione!» esclamai stizzita e limitando le imprecazioni ad
alta voce. Nessuno si fermò ad aiutarmi; anzi, c'era chi passava
allegramente sulle mie preziose pagine, ignorando completamente
che io fossi per terra a raccoglierle come una disperata. Ero in
ginocchio a racimolare più in fretta possibile il mio fardello di carta,
mormorando silenziosamente parole poco carine, quando vidi una
mano raccogliere un foglio dopo l'altro. Eccolo il principe in soccorso
della principessa. Alzai lo sguardo e rimasi incantata da due profondi
occhi bruni.
«La gente si fa sempre gli affari propri», esordì l'affascinante
sconosciuto.
«Non tu...», precisai.
«Io non sono la gente, io sono Manuel», si presentò.
«Cornelia, Cornelia Call», mi presentai a mia volta.
Manuel, sin dal primo momento, si dimostrò gentile nei miei
confronti. Dopo avermi aiutato, mi offrì da bere e, da quel giorno,
iniziò la nostra storia. Un giorno indimenticabile. Eravamo entrambi
un po' impacciati e ci sorridevamo in continuazione come due ebeti,
ma fu una situazione molto carina. Iniziammo a uscire, anche se non
spesso, ma Manuel si rivelò subito un tipo molto serio, responsabile
e premuroso. Sapevo di potermi fidare di lui in ogni circostanza. Per
questo non ero mai stata gelosa, anche se in ufficio era circondato
da segretarie molto carine in minigonna. Lavorava in un'azienda che
sviluppava nuove tecnologie, lui era uno dei tecnici: testava,
assemblava, risolveva le anomalie e, nel suo piccolo, era diventato
un pezzo grosso e io ero fiera di lui. Lo presentai subito a casa, così
da stare tranquilla e non subire il terzo grado da mia madre. Manuel
fu accolto bene da tutti. Non poteva essere altrimenti, era uno dei
pochi bravi ragazzi rimasti sulla faccia della terra.
Il mio destino ormai sembrava scritto, marchiato a fuoco sulla pelle
e non avrei mai potuto immaginare che uno sguardo, un semplice
scambio di battute in un incontro fugace, mi avrebbe portato via dal
sogno e fatto cadere in un atroce incubo. Mai lontanamente avrei
pensato di rimpiangere le mie monotone giornate di studio.
Il
giorno in cui tutto cambiò, avevo l'intenzione di recarmi
all'università per ultimare la documentazione per la tesi e salutare
qualche amico. Mi svegliai presto, mi preparai una ciotola di cereali,
feci una rapida doccia e aggiustai i capelli. Quando fui pronta a
uscire, presi la borsa con le varie scartoffie e partii. Era Venerdì, lo
ricordo ancora. L'università non era molto lontana, mi bastava una
passeggiata per arrivare a destinazione e in quel periodo dell'anno
era anche piacevole. L'aria primaverile ormai si faceva sentire.
In facoltà, incontrai un paio di compagni di corso, intenti a
informarsi sulle date d'esame e su alcuni libri di testo. Ovviamente
avevano i nervi a fior di pelle, speravano in date non troppo vicine,
non troppo ammassate nello stesso periodo e pregavano
mentalmente per riuscire a organizzarsi lo studio. Nella mia testa
gongolavo, perché ero finalmente libera da quell'ansia pre-esame e,
presto, non avrei più avuto a che fare con file interminabili in
segreteria, litigate con i distributori automatici e rimandi infiniti di
lezioni. Questo mi dava un senso di libertà immenso, anche se c'era
sempre il pensiero della cerimonia di laurea che, seppur una
formalità, infondeva una leggera agitazione.
Passai un po' di tempo con i miei quasi ex colleghi, ricordando i
momenti trascorsi a studiare, a ridere e scherzare tra le aule
dell'università. Quando mi chiesero cosa avrei fatto dopo la laurea,
iniziai a vantarmi dei miei splendidi progetti: del mio matrimonio un
anno dopo, del mio futuro marito così speciale da essere una divinità
e delle varie sciocchezze che fanno parte delle fantasie di una
ragazza della mia età. Già immaginavo come sarebbe stato il
matrimonio, il mio abito, la casa, l'arredamento, i nomi per i nostri
figli e tutto ciò che aleggiava intorno al pensiero delle nozze.
Restai in facoltà finché non si fece ora di pranzo. Abbracciai e
salutai frettolosamente i miei amici e filai verso casa. Il weekend era
alle porte e dovevo sistemare la stanza degli ospiti, perché quella
sera Manuel avrebbe passato la notte da me. Ormai era parte della
famiglia e si fermava spesso e volentieri a dormire da noi nei fine
settimana.
Il cielo era limpido, era una bella giornata di primavera, anche se il
sole era alto nel cielo, non disturbava affatto, non faceva per niente
caldo, anzi, c'era un'aria gradevole accompagnata da un leggero
venticello. Ero sovrappensiero quando inavvertitamente urtai
qualcuno, probabilmente una roccia tanto l'impatto fu forte, quasi da
buttarmi per aria, come se avessi sbattuto contro un muro di
cemento armato. Rimbalzai come una pallina di gomma.
Mi girai e vidi che quel "qualcuno" era un vero e proprio armadio.
Un ragazzo alto, esile, dalla pelle chiarissima. Il viso era marcato da
zigomi ben in evidenza, le guance erano pressoché inesistenti per la
magrezza, mentre il naso era stretto e leggermente a punta.
Spiccavano sul candore della pelle gli occhi di un marroncino acceso
che sfioravano il rossiccio e una bella chioma tra il bronzo e il ramato
che a ogni movimento del capo ondeggiava nell'area sprezzante,
come la criniera di un leone. Il suo fisico longilineo non era il classico
magro-scheletrico, ma un magro scolpito nei punti giusti. Le spalle
non erano molto grosse, ma probabilmente la maglia scura
nascondeva una buona dose di addominali su quel fisico snello. Al
suo collo brillava una croce d'argento con ornamenti incisi nel
metallo. Era un ragazzo affascinante, non il mio tipo, però non potei
fare a meno di rimanere colpita e allo stesso tempo perplessa nel
guardarlo. Non so perché, ma il suo sguardo mi trasmise un certo
timore, non avevo mai visto una persona così particolare.
«Stai attenta tu, sei fortunata che vado di fretta!»
Pronunciò quelle parole con estrema durezza, in contrasto con la
sua voce calda e incantevole, quasi fosse una melodia di seduzione.
Quel tono da super uomo, però, mi fece arrabbiare non poco, mi
sarei scusata volentieri se con lo sguardo severo non mi avesse
paralizzata e con la sua risposta maleducata mi avesse stizzita. Un
mio difetto era di non tenermi nulla, ero impertinente e potevo essere
alquanto odiosa e indisponente con chi si dimostrava arrogante nei
miei confronti. Solitamente ero una portatrice sana di buone
maniere, ma quel ragazzo non meritava una risposta né simpatica
né garbata. Con uno sguardo di sfida gli risposi come si meritava:
«Be', magari se anche tu avessi prestato attenzione non ci saremmo
neanche sfiorati e avremmo evitato questa spiacevole situazione.
Spiegami, perché sarei fortunata? Non ti sei neanche scusato, sei un
maleducato! Volevi anche buttarmi giù dal marciapiede? O ti basta
avermi risposto in malo modo senza alcun motivo? Sei grande e
grosso ma non per questo hai la precedenza, per strada non ci sei
solo tu!» Conclusi incrociando le braccia al petto.
Quella statua di marmo mi guardò stranita, poi puntò i suoi occhi
infuocati nei miei e sembrò analizzarmi. Le sue labbra si piegarono
in
un leggero sorriso beffardo, poi fece per andarsene e
sogghignando esclamò: «Ci rivedremo e sicuramente non mi
risponderai più in questo modo». Si fermò prima di avanzare il
passo. «Mi piaci ragazzina, non sai quanto». Continuò poi per la sua
strada. Andò via deciso e con le mani in tasca.
Che ragazzo strano. Prima di tutto mi chiamò ragazzina e lui
sinceramente non sembrava chissà quanto più grande di me. E
quella frase poi: «Ci rivedremo e sicuramente non mi risponderai più
in questo modo.» Non capii cosa fosse. Una minaccia? O era una
sorta di avance il cui scopo era di farmi cadere ai suoi piedi usando
l'alone di mistero? Magari voleva gli corressi dietro, ma si sbagliava
di grosso se sperava una reazione del genere. Modestia a parte, ero
una bella ragazza, perciò era facile ricevere frecciatine e allusioni
dall'altro sesso. Anche se non ero una bellezza particolare, potevo
vantare un certo fascino. Il punto di forza erano i miei occhi marroni
da cerbiatta e i capelli castani lunghi, lisci e setosi. Di solito mi
vestivo in modo carino, con abiti che risaltassero le mie forme e i
miei colori, senza sfociare nel volgare o nell'inappropriato. Insomma
mi sapevo valorizzare, ma non lo facevo per essere ammirata, solo
per sentirmi bene con me stessa. Se pensavo di farmi bella, era solo
per il mio fidanzato.
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