Hanno tutti ragione – Paolo Sorrentino

SINTESI DEL LIBRO:
Che poi non ce ne eravamo neanche accorti, ma è cominciato tutto
perché qualcuno aveva talento, purtroppo. Io!
Che altro dire? Uno passa un sacco di tempo a dirsi: va bene. Ma
quello mica va bene. Quasi mai. E chiuderei qui prima ancora di
cominciare se non fosse che questa vanità malsana galoppa dentro
di me, più veloce di me.
Mi piacerebbe essere limpido, ma non servirebbe a nulla.
Tre conati di vomito e queste pallette piccoline di sudore freddo e
giallognolo che mi accarezzano la fronte bassa, la mia fronte bassa,
la fronte bassa di me, di Tony Pagoda, alias Tony P, con questi
quarantaquattro anni carichi e feroci, che me li porto dietro e che non
li
conto, che se li conto, soffro assai. Perché uno per tutta la vita
vorrebbe essere ragazzo, mica uno scherzo invecchiare. Non credo
proprio.
Comunque, bisogna pur sbrigarla la pratica dell'esistenza. A forza
di derapate lente.
Niente, io sono uno di quelli che, per ingordi di etichette deficienti,
viene definito "un cantante da night". Però io non sono un'etichetta.
Io sono un uomo.
Ma che dire, col senno di poi, non era meglio essere un'etichetta?
Mi sconfinfero in questo lussuoso camerino grande quanto il salone
della mia casa napoletana, con questi velluti rossi che mi stonano
l'esistenza, mentre aspetto di tenere il concerto più importante di
questa mia sontuosa carriera che, tutti lo sanno, ho costruito
pezzetto pezzetto. Mi inginocchio e cerco di arginare l'acqua
minerale che scalpita per risalire dallo stomaco al catino, segno della
croce, mani congiunte, grassocce e farcite di anelli d'oro. I palmi si
attaccano come calamite sudaticce. Sono fradicio di me stesso,
adesso.
Prego, spodestando i lontani ricordi della prima comunione, ma
niente, neanche un modesto Pater Noster. D'altro canto, la cocaina,
se te la fai per lungo tempo tutti i santi giorni, te la massacra la
memoria, altro che, e non solo quella. E io la coca me la prendo
allegramente, senza tregua, da vent'anni. Poi ti racconti che non è
così, nel quartiere della mente consideri la memoria un reduce
resistente, aggredisci l'evidenza, è calata la suggestione, un sipario
di polvere. Lo stupore, anche, ma sono bagliori rallentati. Il fetore
della novità, ad un tratto.
È così che ti cominciano dei dolori atroci, succhi ai limiti e ti ritrovi
distrattamente davanti, moscia e genuflessa, la tua anima. Questo
monumento invisibile.
Ma mica la cavi fuori così una preghierina, macché, però mi ricordo
una frase che dissi una volta ad una giornalista con le tette non c'è
male:
"Se a Sinatra la voce l'ha mandata il Signore, allora a me, più
modestamente, l'ha mandata san Gennaro", questo dissi.
A quei tempi ero in vena di presunzioni a macchia di leopardo. E se
mi va bene questo concerto lo posso essere anche adesso un bel
presuntuoso.
Mi rialzo e un altro conato mi acchiappa come in un rodeo. Sento
che mi sale su il gin tonic numero tre. No, niente coca quando canto.
È roba che se la può permettere Mick Jagger che urla, corre e
sculetta, io invece canto, io devo sentire la papilla che mi sbatte
come un rullante e la corda vocale che oscilla, che poi è la mia
chitarra. E questo conato ci ha origini precise, poiché lì fuori, in
prima fila, nella maestosità del Radio City Music Hall, strozzato
dall'alcol e dall'esperienza, c'è proprio lui, TheVoice, pronto ad
ascoltare me, questo napoletano sconosciuto negli States, ma che in
Italia, Germania, Russia, Spagna, Belgio, Olanda, Brasile, Argentina
e Venezuela pare che faccia faville a colpi di mitragliate di lp venduti.
A colpi di mitragliate, altro che.
Mi aspettano. Se c'è una cosa che so fare bene in questa vita è
farmi aspettare. Fatti i conti, lo so fare talmente bene che poi non
arriverò. Ma questa è un'altra storia.
È un applauso che puzza di nostalgie tipo 'O sole mio e Munasterio
'e Santa Chiara quello che il pubblico di sessantenni italo americani
butta addosso al palcoscenico ancora vuoto, in attesa del solito
ingresso trionfale. Il mio!
È un pubblico, questo degli italo americani, che conosco come le
mie pacche. Un pubblico nutrito a colpi di antenne direzionate sulla
tv italiana, allevato a sciabolate di rigurgiti di malinconia. C'è da
fidarsi di questa gente.
Il mio pianista storico, Rino Pappalardo, mi squilla e mi bussa alla
porta del camerino con mano allenata e densa di un corno rosso
scaccia iella. È ora.
"Arrivo subito" sibilo, con una sola corda vocale, mentre mi analizzo
la pancia nuda e deformata, gonfia e pelosa. Mi sbircio allo specchio
con l'occhietto orgoglioso che tante girls ha demolito e noto con una
puntina di preoccupazione che ora proprio non ci voleva, cazzo, che
quell'occhietto marrone si è fatto rugoso e inopportuno. Ma sempre
furbo e opportunista, cinico e romantico allo stesso tempo. A fiato
trattenuto, mi esercito a tirarlo dentro questo gonfiore. Con risultati
desolanti. Rincalzo la camicia di seta dello smoking, poi mi guardo
deciso allo specchio delimitato da troppe lampadine bianche, ieratico
e speranzoso come sono di carattere, ed è un'orgia di emozione,
paura, angoscia ed eccitazione.
Rino insiste, bussa nuovamente.
"Eccomi, sorelle, sto arrivando" dico io.
Mentre prendo di petto frettoloso il gin tonic numero quattro.
Avanziamo lungo il corridoio di neon che conduce al palco, come
un sindaco e la sua giunta, io in testa, Rino Pappalardo, Lello Cosa
alla batteria, Gino Martire al basso, Titta Palumbo alla guitar. Tutti in
smoking, tutti defenestrati dalle nostre abitudini, tutti emozionati
marci, con la sozza consapevolezza che questo concerto è più
grande di noi.
Nell'intimo, Titta di sicuro sta pensando che non sappiamo leggere
neanche una nota. Ma nell'intimo. È un successo, questo, costruito
sull'orecchio.
"Avrei bisogno di un goccio di Ballantine's" sussurra Cosa al
Martire.
"Magari sta nel pubblico" ironizza terrorizzato Martire.
"Chi?" sbava sordo Lello Cosa.
"Ballantine, il proprietario dell'omonima fabbrica" dice Gino Martire.
"Chiudete il cesso" impongo io. E nessuno parla più.
"Quattro" sgola rauco Lello Cosa e parte più lenta del solito la
cassa della batteria in 4/4. Che recupera sul secondo giro la sua
velocità normale. Dalla quinta guardo torvo Cosa. Durante
l'interminabile intro di ventiquattro secondi, penso impietoso che è
più grande di come me la ricordavo questa sala, ma io ci ho la saliva
difettosa, troppa saliva, e tra quindici secondi attacco, entro in
scena, pure meno, vaffanculo saliva, vaffanculo saliva, vade retro
saliva.
Ci ho la pressione che si è stabilizzata sui valori del geco: undici
quaranta. Un pallore medioevale mi attraversa il volto, ma
comunque. Giaguara è la mia entrata, finto distratta direi. Ma sulle
entrate in scena sono un maestro, un arcangelo, potrei scrivere
trattatelli, pamphlet... l'applauso mi fa tremare la mandibola, è un
battimani da day after, per grazia del bambinello mi scende un poco
la saliva, e mentre azzanno il microfono sorrido al pubblico giulivo
che ulula e riconosce Un treno per il mare.
Alla fine dell'intro attacco a cantare. E dopo due lemmi d'amore
risale l'applauso selvaggio degli italo americani. Ancora troppa
saliva, rimugino rincoglionito dall'emozione, ma li fotto lo stesso,
sempre così, l'amore li rincoglionisce sempre a questi qui e nessuno
saprà mai che... troppa saliva, troppa saliva.
Ora, le pareti del cervello mi sbattono come ante lasciate aperte
durante una tempesta di vento. Cerco con lo sguardo Sinatra in
prima fila, non lo trovo, dove cazzo sta? Vuoi vedere che non è
venuto, sto frocio!
Attacco il secondo verso con mezzo secondo di ritardo, recupero
dopo poco e si consuma, in un'esecuzione mediocre, Un treno per il
mare. Dico grazie più thank you e mentre lo dico lo localizzo al
Sinatra paonazzo. Dacci dentro Tony, sussurro a me stesso, e Tony
ci dà dentro quando sale Una cometa nel cuore, uno di quei brani
che taglierebbe a pezzettini anche il cuore di un serial killer svedese.
Dopo due accordi ho bello che sfondato le pareti dell'emozione.
E mi perdo in un laico pensiero: quando sfondi le pareti
dell'emozione la vita diventa una palla di natale.
Ora, gagliardo e pretenzioso come il pappagallo Portobello, me ne
sto appollaiato quattro toni sopra, sull'acuto pazzesco del ritornello,
che neanche Diamanda Galàs, roba che le pareti del Radio City
vibrano come un'arpa suonata da una testa di cazzo, e il pubblico
italo americano si spacca carpi e metacarpi di lavoratori per
applaudire, e le signore garrule che tengono i lacrimoni a portata di
pupilla. Gli ombretti sciolti, smembrati come la margarina scadente.
Roba che ti sfonda il battito cardiaco se ti sei innamorato una volta
nella vita. E chi non si è innamorato almeno una volta nella vita?
Succede che anche Frank Sinatra, in prima fila, si aggiusta il
pantalone di gabardine e ride e si diverte a tutta questa potenza
vocale. Si diverte con più moderazione Frank, abituato com'è al
contegno, ma lui è un'altra storia, ci vuole altro per sorprendere
Frank, che questa giostrina della vita la conosce dentro e fuori, al
diritto e al rovescio. E ora lo becco in primo piano il nostro Frank,
incrociamo gli sguardi, in un delirio orgiastico di smisurata
ammirazione tra colleghi.
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