Grande Karma – Alessandro Raveggi

SINTESI DEL LIBRO:
Guido indolente da un’ora sull’autostrada in direzione città di
Querétaro: sto aspettando di vedere un cane morto sulla
carreggiata. Se avrà fortuna, lo scanserò. Altrimenti, in qualche
modo, l’interrogherò. Il sole taglia il paesaggio in due copie esatte,
una fatta di cielo brumoso, e l’altra di asfalto misto a polvere. Mi
aspetto di vedere una carcassa di cane a ogni ciglio di strada, ma
questo non definisce il mio stato come euforico, né come
introspettivo. Seguo freddamente la pista dei cani, che è una pista
smaccata tra gli indizi che mi ha lasciato Carlo. Sono alla ricerca del
suo ex assistente Javier. Vago, come digerendo il tragitto,
fermandomi ai punti di ristoro che si trovano vicino ai paesini sporti
sull’autostrada. Stando attento a non falciare anche i campesinos,
che ancor più rapidi di me scavalcano i guardrail bassissimi, violati
da animali di ogni taglia, per raggiungere i loro campi da coltivare:
sacco di patate o d’utensili in spalla, berretto da baseball piazzato
sul naso adunco, aztechi contemporanei.
Javier, dove ti sei cacciato? E i tuoi cani randagi non si vedono,
Javier.
Polli, volpette, roditori del deserto splattati sull’asfalto, in gran
copia, ma i cani non si vedono.
Pare quasi che siano volati via, puff.
“Come fossero angeli… creature libratesi tra cielo e terra…
innocenti e còlti in tutta la loro sofferenza,” avrebbe detto Carlo, se
fosse stato ancora vivo. Poveri Cristi.
“Angeli volati via, puff. Da questo Kaliyuga, da questo mondo
ingarbugliato,” avrebbe aggiunto lo scrittore, indossata la sua veste
arancione da Hare Krishna.
“Poche purezze… in questo mondo infame, eguagliano quella dei
mansueti e soavi occhi di un animale morente…” continuerebbe poi,
facendo il verso a uno dei suoi libri più riusciti. Il Requiem per un
cane, dedicato a un suo cane defunto, alle memorie che sgorgano
sconsolate dalla loro relazione di fedeltà e connubio spirituale.
“Stai attento però a non falcidiarli, madonna santa!” urlerebbe ora
invece, per via del suo animismo spassionato, svelando un accento
fiorentino. Si riferirebbe a tutta l’animalità che, vista da dentro questo
abitacolo di vettura a noleggio, mi circonda, pullula: le formiche, gli
scorpioni, i vermetti, le bisce, i lombrichini che le mie ruote stanno
facendo scoppiare in mille pezzi sfrigolanti. Nessun connubio
spirituale, il mio.
“Voi animali, cari miei, non siete stati avvelenati dal frutto
dell’Albero Proibito…”
La faccia di Carlo Coccioli, che mi si presenta davanti ogni poco
come un miraggio nell’aria torrida del Messico. Le lacrime agli occhi
sotto gli occhialoni dalle ampie lenti, che le rifraggono come fossero
sconfinati laghi.
La strada che percorro è dominata dall’arsura e dal brullo
paesaggio color caffè chiaro del Messico di provincia. A tratti mi
ricorda certi entroterra sardi. Il sole adesso si spande ovunque,
come una glassa riflessa dai pochi acquitrini disponibili. Il cielo che
lo sostiene è più vasto, un cielo americano. Pressoché da una
settimana è finita la stagione delle piogge, e forse si avvicina il
periodo più luminoso dell’anno, quando, usciti dalla Capitale
messicana, la pelle si brucia e i colori tipici di queste zone, i colori
delle case, che sono quelli dell’artigianato – quelli delle stoffe dei
mercati, e quelli della frutta e delle salse sul pollo e sulle tortillas, e
dei giocattoli venduti ai semafori dai venditori poverissimi –, si
stagliano e si amalgamano assieme, con l’arrivo dell’inverno.
Un tempo sospeso, terribilmente splendente, qui.
Sono convinto che Javier, l’ultimo assistente di Carlo, abbia
salvato molti cani, in questa stagione tersa. E anche con un tempo
peggiore, sotto le piogge estive messicane che ora, con l’autunno,
sono finalmente finite – strane asimmetrie dei paesi tropicali. Sono
convinto di questo perché l’ho sentito molto indaffarato, distratto,
brusco al telefono. Sino al momento in cui ha praticamente interrotto
le nostre comunicazioni, già di per sé precarie. La voce registrata mi
annunciava algida come il suo numero di cellulare fosse
improvvisamente… inesistente. Inesistente?
Mi era preso il dubbio che Javier stesso fosse come un fantasma,
ectoplasmatico, inconsistente.
“Javier, mi senti, eh?”
“Ahorita no puedo, querido. Hablamos luego…” e poi più niente.
Luego, lui mi ha rimandato a “luego”: che qui significa, ho
imparato a mie spese, tra due minuti, nella prossima vita, forse
davvero mai. Hasta luego, che ha il senso di un “ci vediamo
all’Inferno”.
Me lo vedo ora, l’Inesistente Assistente Indio Javier, al suo tavolo
operatorio improvvisato e clandestino, ignaro del fatto che io lo stia
davvero cercando. Sta fasciando la zampa insanguinata a un
labrador, sta dando a uno schnauzer l’iniezione letale che gli eviterà
una morte di cupe sofferenze, assopendolo in un mare lattiginoso di
divinità e di non-essere (Coccioli che mi parla in testa, ancora).
Intanto mi fermo, parcheggio, mi sgranchisco le gambe un po’
gonfie per la monotonia del viaggio.
Entro in un punto ristoro, un diner in stile trasandato messicano.
Su muri e pavimenti le ombre colorate di certe plastiche rossastre,
sui tavoli brocche che contengono acque zuccherate al tamarindo,
all’anguria. L’odore nell’ambiente è quello delle enfrijoladas messe
nella vetrinetta a irrancidire. Ho imparato a riconoscerlo dopo questi
mesi inerziali, raccogliendo a fatica i cocci sparsi di una vita: la vita
di Carlo Coccioli.
Chiedo alla signora al banco una Tecate in lattina, birra di poche
pretese, da sportivi e fanatici di football americano, da El Paso in su.
“Quanto dista il ranch de la Favorita, señora?” domando a lei, la
barista, la sua faccia da navajo, gli occhi bassi e incuneati, da
bisonte, il seno inesistente, da ricercare con cura.
“Ancora quince…” ragiona, “quindici chilometri… poi deve
prendere a destra la piccola carretera de Santa Maria Xolotz,” e mi
sbatte in faccia un nome nahuatl, che faccio fatica a pronunciare, per
le ics e le numerose zeta, come mi si frantumassero in gola in
pezzetti acuminati.
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