Gli immortali- Storie del mondo che verrà – Alberto Giuliani

SINTESI DEL LIBRO:
«Pensi davvero che andremo su Marte?»
«Non so se ci riusciremo. Ma è l’unica alternativa che abbiamo.»
«Alternativa a cosa?»
«A questo pianeta. Qui non potremo più vivere a lungo.»
«Ma se ci perdiamo nel giardino di casa nostra, come pensi che riusciremo
a vivere su Marte?»
«Non so se ci vivremo. Magari sarà solo un modo per andare avanti.»
«Non ti seguo.»
«Scopriremo altri pianeti, torneremo nomadi ma multi-planetari.»
«Sembra una fuga. Saremo costretti a vivere di ricordi.»
«No, i ricordi lasciali a casa. Lassù ti uccidono.»
Seduto sul crinale di una caldera del vulcano Mauna Loa, chiacchieravo
con Damien, l’astrobiologo che aveva preso parte alla missione
di vita
su Marte. Nelle sue parole percepivo più il sapore della resa che l’orgoglio del
pioniere ma forse aveva ragione lui: arriverà un momento nel quale su
questo pianeta non ci sarà più posto per l’umanità. Dovremo avere il
coraggio di perdere di vista la riva e l’incoscienza di non guardarci indietro.
Avevo raggiunto questo luogo, sulle pendici del vulcano Mauna Loa,
seguendo le coordinate geogra che che mi aveva fornito la
: 32º45’ Est.
Ci avevo messo meno di un’ora in auto dall’aeroporto di Kona, sulla Grande
isola di Hawaii, e ho avuto anche il tempo di fermarmi al supermercato per
comprare i lamponi al comandante Johanston, la giovane idrogeologa che
era a capo di quella missione spaziale. Me li aveva chiesti in uno dei tanti
videomessaggi che ci eravamo scambiati nei mesi passati. Ero il primo
terrestre che avrebbe incontrato dopo 365 giorni di completo isolamento, e
quando le chiesi cosa le mancasse più di ogni altra cosa, lei rispose «i
lamponi». Mi parve quasi sciocco il suo pensiero, ma quando arrivai
compresi che quel frutto rubino portava l’estate, il profumo dei boschi e il
sapore di un lusso. Tutte cose che lassù si potevano solo sognare. Perché non
c’era niente in quel mondo. La genesi sembrava essersi arrestata
all’improvviso, congelata nei utti della creazione, prima di colmare l’abisso
che separa le tenebre dalla vita. Nel paesaggio che mi circondava, trovavo
solo pietre rosse e aspre che come un mare riempivano ogni orizzonte, sotto
un cielo di nuvole scialbe. Ovunque intorno si aprivano crepacci dalle
bocche così taglienti che neppure la luce osava baciarle. Scomparivano nella
foschia per apparire più in là, sotto i capricci del vento che rendeva quel
deserto mutevole e immobile. Se restavo in silenzio, mi sopra aceva la paura
che quel nulla potesse risucchiarmi.
Per arrivare sulla cima del vulcano, io e Damien eravamo saliti lungo una
pietraia franosa, dove i piedi a ondavano tra schegge di pietra umida e
pungente. Ci aiutavamo appoggiando le mani a terra, cercando un appiglio
per non scivolare giù.
«In un anno credo di aver visto il cielo limpido solamente una volta,
all’alba. Mi sono seduto qui per guardare lontano e ho scoperto quanto
siamo ridicoli» disse Damien mentre con lo sguardo cercava invano
l’orizzonte oltre le nubi.
«Per me è stato come rinascere» aggiunse, respirando ancora ciò che
adesso gli occhi non potevano vedere.
Sotto di noi, tra le pieghe del vulcano, si scorgeva la cupola bianca nella
quale lui e altri cinque astronauti avevano trascorso un anno in completo
isolamento, simulando la vita marziana. La mia visita rappresentava il loro
ultimo miglio ed era stata accolta come la benedizione alla ne della messa.
Finalmente tornavano sulla Terra.
In quell’equipaggio la
aveva riunito i migliori ricercatori del pianeta
per prepararli a colonizzare Marte. Un pilota militare, una dottoressa con sei
lauree, un architetto aerospaziale e una donna ingegnere dell’Alta Sassonia.
Tutti sotto i trent’anni, tutti con un curriculum fuori dal comune.
Chiamarono Damien da Parigi e il comando dell’equipaggio fu a dato alla
Johanston, la ragazza dei lamponi che veniva dal Montana. Bionda e
risoluta, aveva appena ventisette anni, ma i suoi studi le davano l’autorità per
decidere, perché una volta lassù si potrà sopravvivere solo trovando l’acqua.
Questi ragazzi erano spinti interiormente dallo stesso vento che aveva
gon ato le vele delle caravelle più di cinquecento anni prima. Sapevano che
chi un giorno sarebbe andato su Marte probabilmente non sarebbe
sopravvissuto alle radiazioni, ma erano disposti al sacri cio purché il
successo di questa s da fosse una vittoria per l’intera umanità.
In la indiana e con la testa alta come i pionieri sui sentieri dell’oro,
agitavano la mano al cielo e alle telecamere di mezzo mondo che seguivano
l’inizio della missione. Entrando nella casa marziana inauguravano le prove
generali di una nuova Era, che si annunciava negli stemmi cuciti sulle loro
tute bianche: Hi-Seas, alto mare, così c’era scritto.
La casa che li ospitava era la stessa che un giorno li avrebbe accolti su
Marte. Uno spazio circolare del diametro di undici metri. Non più di cinque
passi per andare da un angolo all’altro. Un laboratorio, una dispensa, un
water e sei camere larghe come le cuccette di un capsule hotel orientale.
Quello era l’unico angolo concesso all’intimità, mentre il resto della vita lo
avevano condiviso in un mondo solitario, con un oblò sull’orizzonte e una
camera stagna a separarli dal nulla.
Su Marte arriveremo nudi come naufraghi, perché non potremo portare
nulla di personale che non entri in un taschino. Ogni singolo grammo di
materia dovrà viaggiare per 56 milioni di chilometri e costerà quasi duemila
dollari farlo atterrare su Marte. Porteremo solo noi stessi e sarà già un
miracolo se arriveremo sani e salvi. Spinti a quell’esercizio di essenzialità,
ciascuno di questi astronauti era riuscito a identi care un piccolo pezzo di
mondo che potesse aiutarlo a colmare l’assenza. Una foto di famiglia, una
cartolina con i laghi del Montana, un ritaglio di giornale con l’ultima gloria
dell’aviazione o una minuscola astronave di Star Wars fatta di mattoncini
Lego. Tutti avevano appeso dietro alla porta o sopra il letto la propria icona,
come un’ancora lanciata nella bellezza terrena. Tranne Damien, che là fuori,
di bello, non aveva mai trovato proprio niente.
Avevo bussato alla loro porta accompagnato da una coppia di giovani
tecnici della
, con l’aria da cowboy e l’abbronzatura da sur sti. Li
vedevo per la prima volta ma non faticai a capire che tra i due stesse per
iniziare una relazione, e appena misi piede nella cupola degli astronauti li
osservai scomparire dietro la collina.
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