Giugno – Paolo Bontempo

SINTESI DEL LIBRO:
LA scuola di merda è finita e giugno è il mese più bello dell’anno. A
questo pensava Domenico per far passare quelle ultime,
interminabili ore incastrate so o il banco, in classe, con la luce
rovente che entrava dalle finestre piene di ditate. Era un’estate
violenta quella, lo si capiva bene perché si sudava troppo e il sole
non aveva nessuna intenzione di dare tregua. E a Bergamo, a giugno,
il sole è una promessa se stai fuori, ma se stai dentro è una tortura, e
in genere si muore. Ma la scuola di merda è finita e giugno è il mese
più bello dell’anno.
Era da se embre che Domenico aspe ava quel giorno, cioè
l’ultimo giorno di scuola, cioè la fine del suo incubo peggiore:
studiare e trascorrere le giornate insieme ai suoi compagni di classe.
Non era un tipo come gli altri Domenico, non lo era mai stato e
non lo sarebbe mai diventato, se lo era ripromesso. Ogni volta che
guardava i suoi compagni si chiedeva come facessero a essere così
sfigati. Non ci credeva che avevano dodici anni come lui.
Gli sembrava che fossero dei bambini dell’asilo. Sarà che era
cresciuto in fre a, lui, fra il divorzio dei genitori quando aveva solo
cinque anni e poi quei suoi amici dello skate park, che già facevano
le superiori e ogni pomeriggio avevano un nuovo insegnamento per
lui. Principalmente video porno extreme e, quando si riusciva,
qualche esperienza concreta con le «tipe», come dicevano loro. E poi
i petardi, ovviamente.
Domenico era lì, svaccato sul banco, ad aspe are che suonassero
una dopo l’altra le campanelle di quell’ultimo giorno. E nella testa il
suo mantra: la scuola di merda è finita e giugno è il mese più bello
dell’anno. Quel banco era «suo» so o ogni punto di vista: non si
staccava da lì nemmeno durante l’intervallo e ci scriveva sempre
sopra con lo sbianche o tag e presunti aforismi. Se leggi questa frase
hai la mamma pu ana e Frocio chi legge erano quelli scri i più in
grande. Poi c’era un intero catalogo che i professori conoscevano nel
de aglio e che si arricchiva ogni giorno, perché a niente erano serviti
i richiami del preside e i continui sequestri di sbianche o. L’ultima
volta che era stato in presidenza Domenico se ne era uscito dicendo:
«Beh ora può aprirsi un’edicola».
Il preside era rimasto impassibile, senza ridere, anche se so o
so o apprezzava quel ragazze o spigliato che aveva davanti. Non
sapeva nemmeno lui perché. Domenico era so o tu i gli aspe i il
ragazzino da lasciare indietro, uno di quelli con cui inevitabilmente
il sistema educativo deve fallire per non perdere tu i gli altri: ba uta
facile e tagliente, sguardo sempre alto in corridoio e sempre basso in
classe. Quell’orecchino in finto oro sul lobo sinistro e quel vestire
skater, con felpe e maglie larghe che facevano un certo effe o su un
corpo così esile. Un corpicino che sembrava scomparire dentro quei
vestiti, eppure era lì, sempre teso e nervoso, vitale, pronto a sca are.
Forse era per questo che tu o sommato al preside Domenico
piaceva. Per quell’energia viva che il cappellino della Burton non
riusciva a nascondere. Chissà, forse era anche un po’ invidioso, il
preside, costre o a vestire giacca e crava a tu o il giorno, ogni
giorno, da tu a la vita.
Ma Domenico la sua energia la incanalava solamente nel
cazzeggio. A scuola aveva creato mille problemi e, nonostante la
simpatia, il preside aveva faticato non poco a portarselo fino a lì
senza espulsioni e bocciature.
* * *
«Ciao, sto segnando i nomi per la pizzata di classe, al Keller venerdì
prossimo, tu vieni?»
Era il cambio dell’ora e qualcuno aveva interro o il pensiero fisso
di Domenico. Era il Mario, un suo compagno di classe. Domenico i
p g
nomi dei suoi compagni manco li conosceva, per lui il Mario era solo
«quello con l’apparecchio che sputa quando parla». E se c’era una
cosa sicura era che lui al Keller per la pizzata di classe non ci sarebbe
mai andato, non gliene fregava niente. E poi i genitori dei suoi
compagni non avrebbero apprezzato. Ma la madre di Mario era una
sorta di assistente sociale e di educatrice dell’oratorio, e insisteva col
f
iglio per integrare Domenico, che si era sempre rifiutato di
integrarsi. Mentre i suoi compagni studiavano insieme in biblioteca
o dicevano le preghiere in oratorio, lui stava in giro per il quartiere a
fare casino, e nel caso anche a fumare la weeda, l’erba, come
dicevano i comuni mortali.
«Ti inculi», fu la risposta di Domenico.
Il
Mario aveva tu o il diri o di arrabbiarsi, ma rimase
impassibile. Perché di Domenico si poteva anche aver paura e a volte
era meglio starci alla larga.
«Non preoccuparti.» E il Mario si dileguò mentre suonava la
campanella ed entrava la prof di italiano. Ultima lezione dell’ultimo
giorno.
Per fare in modo che il tempo scorresse più velocemente,
Domenico si addormentò sul banco e fu svegliato solamente dal
boato che seguì l’ultima campanella. La scuola era impazzita di
gioia, e nella sua classe tu i avevano cominciato a urlare e lanciarsi
addosso matite, quaderni, coriandoli, slime e farina. Quelli
dell’ultimo
anno
arrivarono
addiri ura
coi
gave oni,
scaraventandoli contro le ragazze. Era il loro modo di provarci.
Domenico si chiedeva se davvero quelle fossero le scuole medie e
non una gabbia di bambini scemi. Mentre tu i erano in festa, lui tirò
su il suo Eastpak, vuoto come ogni altro giorno, checkkò il suo
Xiaomi e uscì dalla classe. In tu a la scuola c’era un bordello
impressionante, ma Domenico tagliò le traie orie di tu i senza
curarsi minimamente di ciò che succedeva intorno. Prima di uscire,
salutò con un cenno il Gabrio, il bidello, che era l’unico amico che
aveva lì dentro. Il Gabrio era un po’ stupido ma almeno non era
scemo come i ragazzini della scuola.
g
Uscito dalla porta, Domenico fece un bel respiro. Guardò in alto e
il sole lo accecò. Chiuse gli occhi. Ogni cosa era luminosa e colorata e
calda e abbacinante. E c’era qualcosa di bello in tu o quel bruciore
che si sentiva addosso alle palpebre. Abbassò lo sguardo, prese il
cellulare e chiamò il suo amico Mada.
«Bel, è finita fidec, io ci sono.»
«A dopo bel», disse Mada, e si sentiva che, dovunque fosse, stava
sorridendo. E finalmente anche Domenico sorrise: per tre mesi non
avrebbe più visto i suoi compagni di classe. Era finita.
Quando viene l’estate, i palazzoni popolari di Longuelo
assomigliano a dei mostri di calore. Sono come file di lapidi di
cemento su cui, alle due del pomeriggio, le ombre so ili dei
davanzali e delle grondaie scrivono i nomi di chi in quei palazzi ci
muore per l’afa. Per le strade corre la luce del sole che è bianca a
mezzogiorno e poi la sera diventa rossa. E i ragazzini corrono pure
loro per strada, in quel quartiere che può sembrare un quartiere
come gli altri, ma non lo è affa o. Longuelo, alla periferia di
Bergamo, che poi è a pochi chilometri dal centro, un mondo dove c’è
di tu o e non si capisce bene cosa ci sia. Non è ben chiaro se la gente
che ci abita sia povera o ricca, perché in mezzo alle popolari grigie e
decadenti ci sono delle case pazzesche, e può succedere che dal nono
piano di un palazzone si vedano il giardino e la Porsche di qualche
riccone con la super villa. In mezzo a tu o l’agglomerato urbano poi
c’è la chiesa nuova, che è una sorta di capanna di cemento.
Domenico a Longuelo ci abitava da sempre, e una volta aveva
de o che quella chiesa era davvero la cosa più bru a del quartiere.
Era talmente bru a, aveva de o, che nemmeno una bestemmia
poteva offendere Gesù più di quell’abominio di archite ura, e per
quella ba uta si era meritato una standing ovation dai suoi amici.
Passando davanti alla chiesa, anche quel giorno Domenico si fece
il segno della croce con la sinistra, solo per creare un po’ di disturbo
alle vecchie e. Poi volò verso casa, anche se sapeva che lì non ci
sarebbe stato nessuno, perché la madre per l’ennesima volta avrebbe
lavorato fino a tardi. E invece qualcuno c’era.
«Domeeeee.»
q
«Nanooo! Sbrigati!»
Fuori dal cancello del suo palazzone, c’erano due ragazzi ad
aspe arlo. Erano Leddu e Podo.
«Dai scéc, che Mada ci aspe a allo skate park», continuava a
lamentarsi Podo, il più pacioccone dei due. Aveva già la maglie a
completamente pezzata e non la sme eva di agitarsi cercando di
farsi aria. Non faceva che peggiorare la situazione, come al solito.
Podo era uno di quegli elementi di cui un gruppo non può fare a
meno: sbagliava sempre tu o, era costantemente fuori luogo ed era
impossibile immaginarsi una vita senza di lui.
Leddu invece era quello che parlava poco, e solo per distruggere.
Uno con le aspirazioni da capo destinato a non diventare mai il capo.
Scheletrico, faccia da schiaffi, tono di voce gracchiante e ca ivo. Si
poteva sempre contare su di lui per fare casino, ma anche per salvare
il culo a un amico.
«Nano, o ti muovi oppure puoi scordarti di stare con noi.»
«Arrivo raga, salgo a prendere le sigare e e ci sono.»
Se c’era una cosa che Domenico non voleva era perdere l’amicizia
con Leddu, Podo e il gruppo di Mada. Loro erano la crew più temuta
del quartiere, avevano il rispe o di tu i. Gli mancava proprio poco
per essere ufficialmente uno di loro e quell’estate sarebbe stata il suo
punto di svolta, se lo sentiva.
Corse su per le scale, entrò in casa senza nemmeno richiudersi alle
spalle la vecchia porta che meritava di essere cambiata già vent’anni
prima, ma che sarebbe rimasta lì per sempre, con le sue macchie di
umidità e la serratura mezza ro a. In un a imo Domenico girò il
minuscolo appartamento, raccogliendo un paio di cose a caso qua e
là. Due accendini, un clipper, un pacche o di Mura i Blu sgualcite
che aveva rubato alla madre il giorno prima, un grappolo di
pomodorini mollicci dal frigo. La casa avrebbe avuto decisamente
bisogno di una sistemata, ma Domenico non poteva pensarci adesso.
Chiuse la porta con una sola mandata e si precipitò giù dalle scale,
ingoiando schifato i pomodorini mezzi marci. Leddu e Podo lo
aspe avano. Mada lo aspe ava. L’estate era ufficialmente iniziata.
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