Giallo Vaticano – Carlo Marroni

SINTESI DEL LIBRO:
«Cosa mi dice, professore?»
«È un dolore per me constatarlo, ma l’esperienza e i risultati delle
analisi ci dicono che con ogni probabilità è stata imboccata una
strada ormai senza ritorno, purtroppo.»
«Le sue previsioni?»
«Mah… È sempre di cile farle, ma non credo andremo molto
oltre i tre mesi, forse quattro, a meno di un miracolo, che
l’Onnipotente potrebbe concedere…»
«Trattandosi del Santo Padre… Ma noi dobbiamo preoccuparci
dell’uomo e della sua altissima funzione di capo della Chiesa
Universale. Lei comunque non lasci nulla d’intentato. Anche l’ultima
volta le sue condizioni sembravano disperate e poi si è ripreso. Si sa
come possono andare queste cose.»
«Ora è diverso. Ma non dubiti, farò il mio dovere no in fondo,
Eminenza.»
«Rispettando sempre la volontà di non arrivare all’accanimento
terapeutico, che poi è stato uno dei capisaldi della sua dottrina
bioetica.»
Il
Segretario di Stato vaticano, cardinale Augusto Marinetti,
congedò con un cenno del capo l’archiatra ponti cio e andò alla
nestra. Guardò fuori della Terza Loggia, ssò un bambino che
correva in piazza San Pietro, e si concentrò su cosa doveva fare.
Il
vecchio papa stava morendo, ormai era chiaro che nulla
avrebbe cambiato il corso degli eventi.
Lo colpì un senso improvviso di vuoto, d’impotenza e
smarrimento, che si di use d’un tratto e lo fece tremare. Una
sensazione che mai aveva provato nella sua vita, pur movimentata e
intensa. Nessuno, per quanto si fosse preparato per tempo, poteva
essere pronto ad a rontare un evento così imponente, come la ne
di un ponti cato e il traghettamento verso quello successivo. Il
cardinale era anche camerlengo, delegato alla gestione della sede
vacante tra la morte di un papa e l’elezione del successore. Un
compito prestigioso ma anche carico di gravami e insidie, che
conosceva se non per sentito dire, e su cui neppure poteva chiedere
informazioni ad altri, visto che l’ultimo che aveva e ettivamente
esercitato la funzione era mancato di recente.
Ma tutte le cariche che ricopriva, e che lo facevano sulla carta la
gura più importante dopo il ponte ce, alla ne erano solo delle
mostrine accumulate in un decennio di potere quasi assoluto,
durante il quale aveva pur consolidato, non senza di coltà, la sua
in uenza ma che a nulla erano valse per conferirgli reale
autorevolezza. Marinetti era un bravo cardinale di Curia, ma mai e
poi mai sarebbe diventato papa e, per quanto l’autostima sia una
caratteristica di cui i porporati non fanno difetto, anche lui lo
sapeva. Si convinse che l’unica strada da battere era quella di dare
unità al vertice della Chiesa e nel frattempo non farsi distrarre
troppo dalle incombenze che sarebbero derivate dal suo incarico di
“traghettatore”. Insomma, era il momento di darsi da fare per
favorire la migliore soluzione per la Chiesa, e anche per lui. E non
necessariamente in quest’ordine.
«Che notizie?»
«Purtroppo pare proprio che non ci sia nulla da fare, l’infezione si
è di usa e anche i farmaci non possono più molto: aggiungerne di
nuovi sarebbe controproducente» rispose un addetto di anticamera,
sempre ben informato, che di solito ripeteva a memoria quello che
sentiva. Posò la cornetta e rimase a lungo in silenzio nel suo
appartamento vicino San Pietro, guardando la televisione, accesa ma
senz’audio.
Il giovane direttore de «L’Osservatore Romano» – giovane per l’età
media degli appartenenti agli organi della Chiesa – aveva fatto
carriera in fretta. Sacerdote a ventidue anni, monsignore a quaranta,
tre lauree, romano da generazioni, non aveva mai svolto le funzioni
di parroco né quelle di diplomatico ponti cio, parlava tre lingue ma
non era mai stato lontano da Roma per più di due settimane, e di
solito quando lo erano anche tutti gli altri. Anzi, di regola passava le
vacanze a non più di un’ora e mezzo di macchina dal Vaticano, e
insieme a quelle stesse persone che vedeva sempre, forse per evitare
che parlassero male di lui e avere mano libera per farlo degli
assenti. Tra Vicariato e Curia, Angelo Beltrami aveva speso tutto il
tempo utile nelle pubbliche relazioni, e quindi il passaggio al
giornalismo era stato quasi naturale. Da cinque anni dirigeva la
testata u ciale della Santa Sede, ed era il primo ecclesiastico a
occupare quella prestigiosa poltrona dopo moltissimi anni di
brillante guida da parte di laici.
Il quotidiano, poche migliaia di copie in sette lingue, ma di peso
speci co enorme, rappresenta un po’ la metafora del Vaticano,
mezzo chilometro quadrato che mette in riga mezzo mondo.
Il papa che lo aveva nominato alla direzione del giornale stava
morendo, e chi lo aveva sempre protetto no ad allora era destinato
con ogni probabilità a uscire di scena in un lasso di tempo troppo
breve per potersi distrarre. Quindi era ora di darsi una mossa: era in
gioco non solo il prossimo ponti cato, ma il futuro della Chiesa. E di
certo il suo, cinquantun anni portati bene, capelli folti dal taglio
curato, statura sopra la media, abiti di taglio sartoriale, camicie su
misura, alimentazione controllata, sport in modica ma su ciente
quantità, assidua frequentazione delle prime cinematogra che con
uno scelto gruppetto di amici del côté intellettuale di sinistra, anche
se lui tutto era fuorché un sincero progressista. Troppo giovane per
concludere il suo percorso a insegnare teologia dogmatica, per non
parlare di nire relegato in qualche diocesi di provincia a fare il
vescovo e occuparsi di seminari, scuole e preti con uno standard di
moralità spesso sotto la soglia di tolleranza.
Scoppiò a piangere. Uno sconforto profondo lo tra sse, un senso
di sconforto lo pervase. Se la malattia stava accelerando il suo corso
di certo avrebbe impiegato dei mesi a compiere il suo destino, mesi
che avrebbero gettato nel caos la Chiesa, già dilaniata dagli scandali
nanziari e da quelli legati alla piaga della pedo lia, e percorsa da
lotte interne che via via ria oravano come un ume carsico.
«Dov’è la fede, dov’è l’amore verso Dio, dov’è il mistero? Dov’è la
mia Chiesa?» si chiese l’arcivescovo Fabrizio Sanmicheli. L’esito
della visita dell’archiatra, u cialmente riservata, aveva fatto il giro
dei piani alti dei Sacri Palazzi, e in poco tempo sarebbe arrivato
anche ai media.
Sanmicheli era un vero uomo di Chiesa: il suo dolore era sì per le
so erenze del papa ma il pensiero era per l’Istituzione, per la
Tradizione, per la Storia. La Chiesa aveva superato i millenni e
avrebbe eletto un nuovo ponte ce, ma il rischio che tutto potesse
avvenire attraverso una guerra fratricida, fatta di scandali e
congiure, era davvero grande, tanto da far sembrare quasi
verosimile la profezia di Malachia, il vescovo medievale che aveva
predetto con inquietante precisione la successione di tutti i ponte ci
della storia.
Ma lui si era fatto prete spinto da una fede che negli anni si era
rivelata incrollabile, man mano che passavano il tempo e gli
incarichi, da parroco di periferia a Firenze a vescovo ausiliare di
Milano no al ruolo attuale. A sessantadue anni – portati con un po’
di a anno, complici una statura non proprio generosa e un certo
sovrappeso – era segretario dell’APSA, l’Amministrazione del
Patrimonio della Sede Apostolica, in pratica il ministero
dell’Economia vaticano, custode di molte tra le principali ricchezze
nanziarie e immobiliari.
Era lì da sei anni, da quando era stato chiamato a ricoprire la
carica di vice di un cardinale anziano del tutto inadatto ad
amministrare le disastrate risorse vaticane, e lo aveva fatto senza
mai de ettere un attimo dal suo compito, senza mai avere un
dubbio su cosa fosse bene e cosa male, senza mai uno scandalo o
anche solo una chiacchiera.
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