Gambler – Monica Lombardi

SINTESI DEL LIBRO:
Elenco dei personaggi
Ad Atlanta
Mike Summers, tenente della Homicide Unit della polizia di
Atlanta Meggie Summers, infermiera, sorella di Mike Julia Dunhill,
programmatrice, collabora con la Homicide Unit Capitano Harry
Stanton, capo della Homicide Unit Sean McCullough, vice e amico di
Summers
A Las Vegas
Alex Newman, tenente della Homicide Unit della polizia di Las
Vegas Paula Wellman, agente speciale FBI John Maine, agente
speciale FBI
John Devlin, profiler dell’FBI
Ben Cross e Martin Sheer, poliziotti di Seattle
Paul Deuce, poliziotto di Milwaukee Stanley Bronson, poliziotto di
Savannah Vincent Lang e Mick Lehan, poliziotti di Philadelphia
Greg Lipinski, presunto stupratore, arrestato e poi rilasciato per
mancanza di prove
Janet Montgomery, parrucchiera
Billy Dexter, giornalista
Prologo
“I’m taking it slow, feeding my flame
Shuffling the cards of your game And just in time, in the right place,
Suddenly I will play my ace”.
Eyes on fire, Blue Foundation
9 giugno 2008 – Las Vegas Bvd. S (Las Vegas “Strip”)
Guidare lungo lo Strip gli piaceva. Da quando si trovava a Las
Vegas, ogni volta che non riusciva a prendere sonno, come
accadeva spesso negli ultimi mesi, saliva in macchina e lo
percorreva fino a che le luci e i volti che gli scorrevano a fianco non
riuscivano a rilassarlo, a ridargli la sensazione del controllo.
Nessuno sapeva che lui era lì, mentre lui poteva osservare tutti.
Avrebbe potuto decidere di fermarsi in qualsiasi albergo, di seguire
chiunque, di fare qualsiasi cosa. Se non avesse avuto in mente un
piano più grandioso. Se non avesse avuto qualcosa da dire, da
dimostrare.
Anche nell’afa del mattino, lo Strip rimaneva il cuore pulsante di
Las Vegas, s ebbene più che a un muscolo assomigliasse a una
lunga e profonda cicatrice nel deserto, con le torri degli alberghi a
rappresentarne i lembi in rilievo e le corsie di asfalto trafficate a ogni
ora del giorno e della notte la linea originale del taglio. I casinò degli
hotel erano aperti sempre, pronti ad accogliere turisti, curiosi, e
giocatori. La mecca dei malati del gambling . Non era il suo caso.
Era un altro, il gioco a cui si stava preparando. Molto più eccitante e
pericoloso.
Oltrepassò il Bellagio, e nonostante i finestrini chiusi,
impenetrabili all’aria torrida, la musica italiana che accompagnava lo
spettacolo delle fontane danzanti del lussuoso albergo gli arrivò
chiara alle orecchie. Una volta tornato verde il semaforo di Flamingo
Road, ricominciò a studiare la folla che percorreva a lunghe falcate
gli ampi marciapiedi senza sentirne il vociare. Non c’erano vetrine,
sullo Strip. Solo albergo dopo albergo, casinò dopo casinò, alternati
a qualche ristorante e wedding chapel . I negozi erano all’interno dei
giganteschi hotel, vere e proprie città al coperto, spesso con tanto di
cielo artificiale, un mondo alternativo a quello esterno, abbrustolito
sotto il sole del deserto. La gente non si attardava sull’asfalto
asfissiante dei marciapiedi, li usava per lo stretto indispensabile per
spostarsi da un edificio all’altro, cercando il refrigerio delle hall, degli
infiniti,
inutili
centri commerciali, delle basse, immense sale
disegnate da una ragnatela di tavoli verdi e slot machines , segno
tangibile delle ossessioni umane o del puerile tentativo di sbirciare
nelle pieghe buie del fato. Per poi rintanarsi a leccarsi le ferite dietro
a una delle porte numerate dei lunghi, anonimi corridoi, in una
camera uguale a mille altre, in compagnia di una bottiglia o di una
donna o di entrambe.
La musica estenuantemente lenta che usciva dall’autoradio
amplificava la sensazione di stare osservando quella marea umana
al rallentatore. Come in quel film della Bigelow che era rimasto tra i
suoi preferiti. Crudo, cruento, ma con un bel finale. Sarebbe stata
così anche la sua storia. La stava riscrivendo per quello. Per darle il
giusto finale.
Passato il finto – come tutto, in quella città – Ponte di Rialto del
Venetian, il paesaggio urbano cominciò a cambiare. Dagli anni ’90 si
tornava indietro di un ventennio, anche più, se non fosse stato per le
sfacciate torri del Wynn che avevano rimpiazzato un pezzo di storia
dell’intera America, quel Desert Inn che Howard Hughes aveva
scelto come dimora e quartier generale nell’ultimo, eccentrico
periodo della sua vita. E si entrava nella Las Vegas di antica gloria,
con quel sapore retrò che trasudava dagli edifici più bassi,
dall’architettura anni ‘50. Il “vecchio” tempio del gioco. Per finire nella
città vera, quella dove vivevano croupier e cameriere, starlette e
cuochi, spesso in edifici fatiscenti e strade malamente illuminate, o in
alberghi pulciosi ai quali i turisti non osavano avvicinarsi.
Come quello dove si stava recando. Per scrivere il primo atto
della sua nuova storia.
PARTE 1
L’ingresso dei giocatori
Capitolo 1
17 giugno 2008 – Casa di Meggie Summers
Non era una giornata particolarmente calda, per essere metà
giugno. La stessa brezza proveniente da sud-est che aveva tinto il
cielo di un azzurro quasi sfacciato e che sospingeva i rari, innocui
spumoni bianchi verso nord-ovest aveva regalato a quel pomeriggio
la temperatura ideale per una festa di compleanno all’aperto.
Certo, se si balla insieme a un gruppo di bimbi di cinque anni, la
temperatura sale. Per questo Julia era stata lieta di accollarsi il
compito di andare a prendere il gelato, lasciando a Meggie quello di
organizzare il gioco successivo. La frescura che regnava nella casa
deserta le sfiorò la pelle appena si chiuse alle spalle la porta finestra
che conduceva nel giardino sul retro, dove erano stati allestiti i tavoli
ed erano in corso i festeggiamenti.
Mentre la moglie si occupava dei bambini, Brad si dedicava agli
adulti, intrattenendo i genitori dei piccoli ospiti, distribuendo birre e
bibite fresche, e discutendo della conferma del quarterback Matt
Ryan e degli ultimi acquisti dei Falcons. Julia non era appassionata
di football, ma era impossibile perdersi gli aggiornamenti di Brad,
brillante medico ma anche tifoso preoccupato dopo la deludente
stagione precedente. Il resto della famiglia non era ancora arrivato.
Il resto della famiglia. Sospirò. Non era sicura di essere pronta
per quell’incontro, che sapeva inevitabile. Ma di fronte al “ti prego,
zia Julia, devi esserci!” non se l’era sentita di rifiutare l’invito. Anche
se quel “zia Julia”, ancora così pieno di affetto nella voce squillante
della bimba ma ormai svuotato del suo significato originario, le aveva
provocato una fitta pungente. E non le era sfuggito il sorriso
soddisfatto e lo scintillio negli occhi schietti e scuri della mamma
della festeggiata. A sei settimane dall’ultima conversazione che Julia
e Mike Summers, poliziotto nonché fratello della padrona di casa,
avevano avuto, settimane in cui il silenzio era stato rotto solo da un
paio di laconici SMS, inspiegabilmente Meggie sembrava avere
ancora una speranza, più una sorta di segreta convinzione, in realtà,
che Julia era ben lontana dal condividere.
Per l’ennesima volta, come uno spettatore che continua a
riavvolgere e riguardare la stessa scena di un film che ormai
conosce a memoria, e a malapena consapevole che le sue mani
stavo prendendo due contenitori dal freezer, la sua mente riandò a
quel pomeriggio di fine aprile in ospedale, quando Mike le aveva
detto che dovevano “prendersi del tempo per pensare”. “A che cosa?
Se ne è valsa o meno la pena di beccarti una pallottola al posto
mio?” aveva replicato lei. Beh, le parole non erano state proprio
quelle, ma il senso sì. Aveva lasciato la stanza delusa e arrabbiata.
Ferita.
Sforzandosi di concentrarsi su ciò che stava facendo, a ppoggiò
le due vaschette di gelato sul bancone della penisola e aprì i
mobiletti sopra di lei, dove Meggie le aveva detto che avrebbe
trovato le coppette colorate per i bimbi. Cercò paletta e cucchiaini e
si mise al lavoro, appoggiando man mano le ciotole piene sul
vassoio già pronto sul ripiano. L’automatismo dei gesti giocò a suo
sfavore, e nella testa ricominciarono a scorrere le frasi che si
immaginava si sarebbero scambiati.
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