Frammenti della notte – Andrés Neuman

SINTESI DEL LIBRO:
Erano le quattro in punto quando Demetrio Rota illuminò debolmente la notte
con la sua tuta fosforescente. Quasi senza pensarci, sputò in un tombino. Lo
centrò e ne fu contento. L’aria umida del Rio de la Plata arrivava dal porto,
risaliva avenida Independencia e si attenuava man mano che si avvicinava
alla 9 de Julio; da lì in poi, l’alito invernale di Buenos Aires regnava
incontrastato: denso, persistente, corrosivo. Il freddo era il meno.
Vicino al camion, che spandeva un lezzo caldo di motore e rifiuti, di bucce
d’arancia, fondi di mate e benzina, Demetrio Rota e il suo collega
rabbrividivano con eschimese indifferenza. Lanciami quei sacchi, lanciameli,
gli gridò il Negro. Demetrio non lo stava a sentire. Guardava il tombino e
restava fermo con le spalle contratte, come se si fosse dimenticato di
abbassarle. Dai, su, cosa fai lì. Stavolta Demetrio l’aveva sentito, ma non si
decideva a muoversi, i sacchi ai suoi piedi come un esercito di bestiole lerce.
Guarda che sono già le quattro e cinque, eh, poi finiamo nella merda tutti e
due, Demetrio. Allora lui sospirò e si chinò per tirare il primo sacco al Negro.
Il tombino insinuava un lontano fluire sul fondo.
Due
Visto che umidità?
Ogni tanto il Negro si sturava il naso con un rumore che a Demetrio dava
particolarmente fastidio. In quell’alba senza sole, il cielo stava prendendo il
colore stinto di giugno. Demetrio era sicuro che il cambio di stagione
influisse sul Negro, che diventava più scemo e più chiacchierone. Quanto a
lui, dipendeva: certi giorni era taciturno, altri parlava volentieri di calcio, e
del fine settimana, e delle donne che passavano quando il giorno cominciava
ad alzare la testa. Demetrio le preferiva decisamente pienotte, non gli piaceva
per niente la moda delle ragazze grissino. Al Negro invece non dispiaceva
affatto il tipino con la gonna a quadretti. Guarda che bambolina, quanto è
buona, queste si fanno gelare il culo pur di mettersi in mostra. Bah, troppo
magra, obbiettò Demetrio.
In fondo a calle Bolívar c’era un bar brutto e di poche pretese, con i
tavolini sparpagliati e qualche sedia intorno, messa lì come per caso. A uno di
quei tavoli aveva l’abitudine di far colazione un pensionato smilzo e allegro
che loro due conoscevano come il Tappo. Il cameriere gli si rivolgeva con un
rispettoso don, anche se quello beveva sempre e soltanto il vino rosso della
casa. Allora, giovanotto, ci serva subito che oggi andiamo di fretta, annunciò
il Negro come se il locale fosse pieno. Demetrio era ancora pensieroso. Quel
mattino erano andati lenti; avevano già quasi un quarto d’ora di ritardo e
poterono ordinare soltanto un caffè con latte freddo. Il Tappo li salutò
sventolando un vecchio giornale.
Il loro giro stava per concludersi puntualmente grazie all’abilità del Negro.
Demetrio si mise al volante e sentì che recuperava l’ordine della mattina:
togliersi i guanti era d’aiuto, perché le dita si sentivano di nuovo dita e
riconoscevano la solita vecchia pelle delle cose. Guardò nello specchietto il
Negro, che raccoglieva gli ultimi sacchi con una specie di orgoglio da
prestigiatore. Lo osservò con affetto e sorrise leggermente, e poi ebbe la
sensazione di sentirsi meglio, quasi bene, mentre metteva di nuovo in moto il
camion. Ora sarebbero tornati alla discarica per svuotarlo. Quindi il Negro
sarebbe partito di corsa per l’altro lavoro, e solo a pomeriggio inoltrato
sarebbe tornato a casa per pranzare con la moglie e dare un’occhiata a come
venivano su i suoi due figli. Demetrio, invece, viveva in un appartamentino in
affitto dalle parti della Chacarita, e dopo pranzo passava il pomeriggio a
dormire. Poi, verso le otto, si alzava, mangiava qualcosa per cena e si
affacciava un momento alla finestra osservando le auto e fingendo che si
muovessero da sole, senza nessuno dentro; o scegliendo un tetto a caso per
immaginare di volarci sopra e coricarsi a pancia in su, con la faccia rivolta al
cielo fresco e vuoto di stelle, finché non si annoiava e allora si sedeva per
mettere mano all’opera.
Tre
Un prato costellato di immensi fiori rossi, nessuno esattamente uguale
all’altro. Con l’erba folta e la decisa luce del meriggio, tutto acquista l’aspetto
d’una dolce bandiera. A un lato, non vicino alla capanna, giaceva il lago. Il
chiarore uniforme si perdeva verso la cordigliera. Dei monti non si vede
ancora tanto: solamente il presagio delle vette, indici enormi puntati allo
spazio segnando traiettorie invalicabili. La capanna era il classico modello
alpino, con due finestre brevi, non del tutto regolari. Due gatti, nel frattempo,
giocavano a graffiarsi e poi ad amarsi mischiandosi i colori. La corteccia sui
tronchi, ancestrale, sembrava il testimone unico del tempo tra tutta l’acqua
eterna e i tanti fiori che muoiono giovani.
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