Formiche – Brian Freeman

SINTESI DEL LIBRO:
Nel sogno, Alison Malville aveva il corpo ricoperto di formiche nere.
Come un esercito invasore, si in lavano sotto i bottoni della camicia da
notte, attraversavano la seta e marciavano sulla pelle umida. Dal cuscino,
risalivano lungo la foresta dei suoi capelli rossi, si attaccavano alle ciglia,
esploravano gli ori zi del viso. Lei cercava di annegarle con le lacrime.
Incapace di muoversi, gridava senza produrre nessun suono, mentre
migliaia di formiche le salivano sui piedi, tra le cosce, sul tronco e sul collo,
violando ogni piega tra le sue membra.
“Svegliati” le disse il cervello.
Svegliati.
Alison si rizzò a sedere di scatto. Anche da sveglia sentiva ancora le
formiche strisciarle addosso, e si tolse con gesti frenetici la camicia da notte,
strappando i bottoni. Nuda, scese dal letto e si appoggiò contro il muro,
sfregandosi, schiaffeggiando la pelle per uccidere le formiche. Alla ne,
esausta e singhiozzante, si accasciò sul pavimento e si abbracciò le
ginocchia.
Di nuovo. Era successo di nuovo.
Ormai sognava le formiche quasi ogni notte. Quando chiudeva gli occhi,
loro erano lì, in attesa di scivolare attraverso le pareti. Avevano persino
cominciato a ltrare dal sonno alla veglia. Alison non riusciva a sfuggire
all’assedio. Dovunque si spostasse, dentro casa, le sentiva ammassate sul
soffitto, che la spiavano.
Sapeva cosa le stava accadendo. Non c’entravano le formiche, ma suo
marito. Era lui che la stava facendo impazzire.
Seduta sul pavimento, ssò l’orologio digitale sul comodino. Le sei.
Attraverso le tende non ltrava ancora nessuna luce, ma presto sarebbe stata
mattina, ed era già in ritardo. Non ci era riuscita. Aveva deciso di restare
sveglia per vedere cosa faceva Michael, ma a un certo punto dopo
mezzanotte si era addormentata, malgrado tre tazze di tè molto, molto forte.
E aveva dormito sodo.
Le formiche erano tornate.
Si alzò in piedi rapidamente. Aveva la pelle d’oca. Prese la vestaglia appesa
dietro la porta dell’armadio a muro, la indossò e legò la cintura in vita. Tolse
la sedia che bloccava la maniglia della porta, uscì dalla stanza e sbirciò lungo
il corridoio. Il primo piano della casa era buio e silenzioso.
Sentì un odore strano nell’aria stantia, che usciva dai termoconvettori
insieme all’aria calda. Era un profumo. Il suo.
Controllò prima Evan. Il glio, dieci anni, dormiva in una stanza affollata
di poster di mostri, attaccati ai muri con le puntine da disegno. Era
ossessionato dai vecchi lm di Frankenstein. Dai vampiri. Dai lupi mannari.
Ma a differenza della madre era senza paura, immune ai brutti sogni. Alison
lo trovò spaparanzato sopra le coperte, la bocca aperta e la zazzera castana
che gli copriva gli occhi. Attraversò il campo minato di giocattoli sulla
moquette e gli accarezzò una guancia con il dorso di una mano. Evan
mormorò qualcosa, senza svegliarsi.
Alison udì un rumore alle sue spalle. Si voltò ma non c’era nulla.
Solo formiche.
Si affrettò a scendere di sotto, tenendosi stretti gli avambracci. La casa era
così fredda e l’aria così secca che la ringhiera di metallo le trasmise una
scossa quando la s orò. Le mattonelle di ceramica del soggiorno erano
blocchi di ghiaccio, che attraversò in punta di piedi. Passò in sala da pranzo,
dove c’era una spessa moquette, ma si tagliò un piede su qualcosa. Si chinò a
frugare tra le bre della moquette e trovò un pezzetto di vetro triangolare.
Lo sollevò tra le dita, guardò i ripiani polverosi della credenza e vide che
mancava un calice russo di cristallo, un regalo di nozze dei suoi genitori.
«Oh, Evan» mormorò.
Ma non aveva tempo di preoccuparsi del bicchiere rotto. Si spostò sul
retro della casa, dove Michael aveva sistemato il suo ufficio privato. La porta
era chiusa, come sempre. Quella stanza era off-limits per tutti, a parte lui.
Suo marito sosteneva che Evan si era messo a giocare con il suo computer e
per questo aveva deciso di chiudere a chiave lo studio. Secondo Alison,
aveva paura di cosa lei avrebbe potuto trovare nascosto nei suoi le
personali.
Fotogra e.
Accostò un orecchio alla porta e lo udì russare leggermente. Da settimane
dormiva lì, lontano da lei.
Fu contenta di saperlo ancora in casa, comunque. Si disse che la sua
paranoia era un’illusione, come le formiche. È così che funziona, pensò,
quando sospetti qualcosa che non osi credere. Usi tutte le opportunità per
dire a te stessa che ti stai sbagliando.
Michael non era un mostro.
Eppure, Alison sapeva che il suo essere lì al mattino presto non signi cava
nulla. Lei aveva dormito per la maggior parte della notte, e in quelle ore
poteva essere successo di tutto. Doveva sapere la verità. Tornò in soggiorno,
dove il soffitto a volta incombeva sopra l’ingresso. Michael teneva le sue
chiavi in una ciotola di ceramica accanto alla porta. Le prese, spalancò la
porta di casa e corse fuori.
Vivevano in campagna. Gli uccelli cinguettavano tra i rami degli abeti
oltre il campo. Le pietre del sentiero erano gelide. Il respiro si condensava
appena usciva dalla bocca.
La berlina nera di Michael era fuori dal garage. I nestrini erano coperti
di ghiaccio. Il cofano era freddo, ma la notte il termometro scendeva a sei o
sette gradi sottozero, e i motori si raffreddavano quasi immediatamente.
Aprì la portiera del conducente. Michael non bloccava mai le portiere. Non
ce n’era bisogno, in quel posto nel mezzo del nulla.
Alison ricordava il numero esatto di chilometri. Era uscita di soppiatto
per memorizzarlo prima di andare a letto. Era la sua àncora di salvezza.
Si sedette in macchina, scossa da brividi così forti che quasi non riuscì a
in lare la chiavetta nell’accensione. Accese il quadro e il cruscotto si
illuminò di luci bianche e rosse. Si chinò sul volante e si coprì la bocca con
una mano.
Rilesse tre volte il numero sul contachilometri, per essere sicura di non
sbagliarsi.
Michael aveva guidato per quasi cinquanta chilometri durante la notte.
Evan era seduto al tavolo della cucina, intento a mangiare latte e cereali
mentre voltava le pagine di un fumetto. Alison udì il rumore dell’acqua che
scorreva nei tubi e capì che il marito era sveglio. Era vestita per andare al
lavoro, perciò prima di mettersi a friggere si legò un grembiule per non
sporcare la blusa rosa con qualche schizzo di pancetta. Michael amava la
colazione calda, e lei gliela preparava ancora ogni mattina, come faceva da
anni. Come se tra loro non fosse cambiato nulla.
«Posso avere del succo d’arancia?» chiese Evan.
Lo sguardo di Alison si ammorbidì. «Certo.»
Aprì l’enorme frigo a due porte e prese un cartone di succo dalla mensola
in alto. Scuotendolo, si accorse che era vuoto. Sospirò, infastidita. Era una
piccolezza, ma quel giorno non ce la faceva neppure a sopportare i piccoli
contrattempi.
«Mi dispiace, non c’è più succo.»
«Oh.»
«L’hai nito e non me l’hai detto?»
«No.»
Alison lo guardò con nta severità. «Perché se lo nisci e rimetti il
cartone vuoto in frigo, io non so che devo comprarne dell’altro. E così tu
resti senza.»
«Non sono stato io» insistette Evan.
«Come vuoi» rispose Alison. Era sicura che fosse lui il colpevole.
Tornò ai fornelli. La pancetta si stava carbonizzando. Tolse subito la
padella dal fuoco, ma l’odore di bruciato era forte. Poiché aveva cucinato già
vestita per andare al lavoro, ora il tailleur e i suoi lunghi capelli rossi
avrebbero emanato odore di pancetta, invece che di profumo francese.
«C’è qualcos’altro che vuoi dirmi?» chiese a Evan.
«Tipo?»
«Tipo cosa è successo al bicchiere di cristallo in sala da pranzo. Quello
sulla credenza che non dovevi toccare.»
Il glio deglutì, nervoso. «Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che qualcuno l’ha rotto. Ho trovato i pezzi in fondo al
sacchetto della spazzatura.»
«Non sono stato io.»
Alison inclinò la testa di lato, seccata. «Evan, ricordi quello che ti dico
sempre? Gli errori vanno bene, le bugie no.»
«Non è una bugia.» Evan la ssò con occhi grandi e sinceri, abbassando la
voce no a un bisbiglio. «Credo sia stato un diavolo che sputa.»
«Un che?»
«Un diavolo che sputa.» Evan le mostrò il fumetto. Sulla pagina c’era un
diavolo dalla pelle rossa, con la lingua fuori. «Vedi, fanno succedere brutte
cose di notte, e l’unico modo per sapere che sono stati loro è che sputano
sangue sul pavimento.»
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