Storia del ghetto di Venezia – Riccardo Calimani

SINTESI DEL LIBRO:
Non è vero che tutto quello che non
è scritto non esiste.
JACQUES LE GOFF
Quel che è stato sarà e quel che si è
fatto si rifarà.
Qoèlet 1,9
Chi non ricorda il proprio passato è
destinato a riviverlo.
GEORGE SANTAYANA
Ciò che hai ereditato dai padri
riconquistalo, se vuoi possederlo
davvero.
JOHANN WOLFGANG GOETHE
PREMESSA ALLA NUOVA
EDIZIONE
Non capita spesso che un libro abbia
la forza (o la fortuna) di rimanere
attuale per più di trent’anni. E dire
che quando proposi il progetto a un
funzionario della più grande casa
editrice italiana, la sua reazione fu
oltremodo tiepida. Dopo un breve
colloquio, sentenziò: «Non credo
che attirerebbe troppi lettori».
Trovai un altro editore. Un
dirigente mi inviò il contratto ma,
poco tempo dopo, lasciò il suo posto
e così mi ritrovai senza un
interlocutore. La persona che lo
sostituì mi comunicò che la tiratura
non sarebbe stata alta, che il testo
era troppo lungo e che avrei dovuto
tagliarlo.
Rifiutai. Il libro fu pubblicato
nella sua versione integrale e, nel
decennio successivo, ebbe almeno
una decina di ristampe e fu tradotto
in inglese, francese, tedesco e
polacco.
Poi, un giorno, ricevetti da
Segrate una telefonata molto
affettuosa, ma nel contempo burbera
e ultimativa: «Che cosa aspetta a
rivolgersi alla Mondadori?».
L’offerta era più che gradita, e non
poteva, né doveva, essere rifiutata.
Da allora con il nuovo editore ho
pubblicato, in piena libertà, almeno
venti libri dedicati al mondo, alla
cultura e alla storia dell’ebraismo,
ivi inclusi gli ultimi tre grossi
volumi che compongono la Storia
degli ebrei italiani. (Solo il primo
romanzo, che scrissi a sedici anni,
giace ancora nel cassetto.)
Ora, nel riproporre al lettore una
nuova edizione riveduta, aggiornata
e ampliata della Storia del ghetto di
Venezia, in occasione del
cinquecentesimo anniversario della
fondazione del ghetto, mi ritrovo
anche a fare un bilancio dei miei
cinquant’anni di impegno nella
scrittura.
Cominciamo dall’inizio.
Un mio lontano antenato, un
Calimano «homo bono e onesto»,
profugo da Treviso, entrò molto
malvolentieri nel ghetto di Venezia
nel 1516. Da allora, mentre gran
parte degli ebrei furono costretti a
spostarsi continuamente da un paese
all’altro, i Calimani hanno vissuto
per circa tre secoli in quel quartiere
chiuso e sotto controllo.
Mio padre, figlio di un chazan
(cantore di sinagoga), nacque nel
ghetto, rimase orfano a sedici anni e
si trasferì in una casa, a cento metri
di distanza da quel luogo oggi
famoso, solo poco prima dello
scoppio della seconda guerra
mondiale.
Dopo l’8 settembre 1943, con
l’arrivo dei nazisti in Italia, i miei
genitori decisero di sposarsi e di
fuggire insieme in Svizzera. Il
giorno delle nozze, celebrate il 16
settembre, furono informati che il
presidente della comunità ebraica
veneziana, professor Giuseppe Jona,
si era suicidato per non dover
consegnare la lista degli ebrei
residenti in città ai nazifascisti, che
li cercavano per deportarli.
Fallito il tentativo di varcare la
frontiera svizzera, i miei genitori si
rifugiarono in Alpago, una zona
montuosa del Veneto, dove vennero
aiutati e nascosti dagli abitanti della
zona fino al 25 aprile 1945.
Nove mesi dopo, il 20 gennaio
1946, in quella casa vicina al ghetto
di Venezia sono nato io, il primo
della mia famiglia a essere venuto al
mondo, con ottima scelta di tempo,
non solo fuori dal ghetto, ma anche
fuori dalla guerra. I miei genitori mi
hanno chiamato Riccardo, il nome di
uno zio materno deportato e
assassinato ad Auschwitz.
Un antenato di mia madre,
Mendel Hirsch, originario di
Brandes, un piccolo villaggio della
Galizia austriaca nei pressi di Brody,
era arrivato a Venezia nel 1870 e vi
si era stabilito. Abbandonato il nome
Hirsch e mantenuto quello del
villaggio natale, aveva chiamato il
figlio Riccardo.
Il figlio di quest’ultimo, di nome
Giacomo, era mio nonno materno
che, essendo apolide, per ottenere la
cittadinanza italiana aveva scelto di
arruolarsi volontario nelle file
dell’esercito italiano durante la
prima guerra mondiale, e anche lui –
come detto – aveva chiamato uno
dei suoi figli Riccardo.
Me lo ricordo molto bene, nonno
Giacomo. Per tutta la vita batté le
campagne con due valigie come
venditore ambulante di vestiti, e
ogni volta che mi vedeva mi dava i
soldi per il gelato.
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