Dio non ama i bambini – Laura Pariani

SINTESI DEL LIBRO:
Una volta gh'era on poveròmm. Ci aveva tredici figli ma nagotta da
mangia. Alura l'ha pensa: Adesso vo nel bosco e li abbandono tutti e
tredici…
(Tredesin, favola tradizionale lombarda).
Ninna, ninna nannarella, il lupo si mangiò la pecorella…
(ninna nanna italiana).
Duerme, nino, duerme, duerme que viene el coco y se lleva a los
ninos que duermen poco.
(ninna nanna spagnola).
Guardo la bambina Viola giocare:fa parlare gli oggetti, ci chiacchiera.
Segue l'oscillare della coda della gatta, creatura sorella, come se si
trattasse del ritmo segreto del tempo.
Mi piacerebbe contemplare con i suoi stessi occhi il mondo, nelle
sue chiavi infantili ed estreme, nel suo presente totale.
Ma quel turbine di carne e luce che è la bambina Viola mi dà la
misura della distanza dell'età, delle mie perdite, del mio esilio:
l'infanzia non si presta alla letteratura.
Tuttavia, con malinconica ostinazione, provo a immaginare una
radura dove, se i piccoli frequentassero la foresta dei nomi e delle
frasi, canterebbero questa canzone inverosimile come una fragola
nell'alto dei cieli: CANZONE DEI BAMBINI CHE HANNO PAURA
DEL BABAU.
Siamo i bambini dei conventillos di Buenos Aires. brutti effimeri,
miracoli di poche stagioni, coscine di pollo.
Apparteniamo alla strada, ai terreni incolti che circondano i mattatoi.
Andiamo da una pozzanghera all'altra, nei solchi tracciati per il gioco
"della campana", con un piede, saltando dietro a una pietruzza che
rotola; oppure giochiamo a girotondo, alla corda, a mosca cieca, a
saltamartino.
Vivendo tra il sole che picchia sulle mattonelle del patio e l'ombra
amichevole dei muri dello zaguàn.
Cercando tesori di meraviglie inaspettate tra l'immondizia e
l'erbaccia che cresce nei fossatelli ai lati delle vie, svegliando il fondo
cantante di una bottiglia vuota, adorando l'altra faccia degli oggetti.
Guardando negli occhi una lucertola o conversando con un gatto
randagio.
Siamo impacciati di fronte alle domande dei grandi ormai instradati
sulle vie della convenienza e del timore; mentre noi di fronte ai
misteri ci apriamo, quasi ci stessero aspettando da sempre.
Che i nostri piccoli passi prendono possesso di Buenos Aires alla
leggera, perché anche se la terra sente appena il nostro peso
bambino, noi apparteniamo alla terra.
Ci allontaniamo fiduciosi dal portone di calle Belgrano 3326,
seguendo uno sconosciuto, solo perché della città intera e 'interessa
il berretto di tela blu che lui ci ha promesso.
Che sempre, in ogni situazione, riconduciamo l'enormità del mondo
alla nostra piccola misura.
La notte, poi, precipitiamo nel sonno come in una caverna di
miracoli.
Qualsiasi posizione va bene e il sonno ci sorprende sempre sul
punto di progettare qualcosa.
Con i nostri piedini che sanno di strada e di corse.
Addentrandoci in sogni oscuri di vita e di morte, senza sapere che ci
siamo davvero dentro: ninna ninna nannarella, il lupo si mangiò la
pecorella.
Poi, nella scurità, il cuore comincia a batterci forte dalla paura e nel
sogno sentiamo una di noi chiedere: «Manca ancora tanto?» Che la
bambina cammina ormai da venti minuti buoni, le strade si sono fatte
sempre più accidentate, le case isolate.
«Perché, se è molto lontano, io non ci posso venire.
Che poi la zia Pacifica dice che sono una vagabonda e mi picchia».
Questo sognamo, e vediamo la nostra piccola amica tentare di
svincolarsi dalla mano del babau che la tiene però saldamente
stretta.
«Devo tornare a casa, la udiamo ripetere piagnucolando.
Sono uscita solo perché era caldo e i grandi nel patio facevano
baccanéri per l'asado di addio, dato che domani mattina presto
partiamo per Santa Fé.
Ma io volevo vedere se la Manetta e la Ginòria stavano ancora
giocando fuori, nello zaguàn…» Nel sogno vediamo che i due lei e il
babau che continua a trascinarla a strattoni sono arrivati a una
stradina pietrosa e mal illuminata.
Tremiamo quando sentiamo la voce di lui, rauca: «Siamo quasi
arrivati, solo pochi passi.
Sta qui dietro, Brigida. Ti chiami Brigida, vero?
È stata la Manetta a dirmi il tuo nome e a ordinarmi di venirti a
prendere».
«Ma se io non ti conosco…» ribatte la piccola, perplessa,
dondolando le treccine scure.
«È la Manetta che mi ha detto dove trovarti.
E ti ha descritta così bene che ti ho riconosciuta subito».
«Bugiardone: la Manetta non sa mica parlare, ha solo un anno e
mezzo».
Applaudiamo la risposta della bambina e nel sonno le gridiamo che
scappi, che è una trappola.
Lei miracolosamente ci sente, cerca nuovamente di svincolarsi,
senza però riuscirci.
«Con gli altri magari non parla. Ma con me la Manetta parla,
eccome. Mi racconta sempre di te», dice il babau senza smetterla di
tenerla stretta.
«Ecco, Brigida, siamo arrivati», annuncia davanti a un terreno incolto
che si apre davanti a loro.
«Io non ci entro in mezzo all' erbaccia. Se mi sporco la vestina, la zia
Pacifica mi fa nera di botte…» ribatte la bambina, e con le mani si
liscia il sottanino a quadrotti rossi e bianchi.
Senza alcuna ragione, nelle immagini del sogno s'inserisce una
fisarmonica aperta al massimo, che emette una nota profonda e
misteriosa.
Il babau lancia un' occhiata a destra e a sinistra: la via è deserta.
Ecco, la fisarmonica si chiude, si chiude…
Lui spinge la bambina oltre la porta di una baracca e serra l'uscio.
«E buio. Non si vede niente. Dov'è la Manetta?» si mette a gridare la
bambina; la voce incrinata dallo spavento.
«Chiudi il becco, scimmia!» ringhia il babau, facendole pressione
con la mano sulla bocca, fino a farle perdere i sensi.
Poi la getta nella fossa su altri due corpicini.
«Va' là che sei in bella compagnia!» E noi allora passiamo dal sonno
alla veglia nello spazio di un urlo.
«Zitti, sacramégna!» ordina la voce di un adulto dal fondo della
cucina dove dormiamo.
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