Dirty Games – Valentina Facchini

SINTESI DEL LIBRO:
Battei la penna sul taccuino, sciolsi i muscoli del collo e spostai il
peso da un piede all’altro; il cliente che stavo servendo stava
impiegando un'eternità a ordinare. Ero nel pieno del mio turno alla
caffetteria, erano passate quasi quattro ore da quando avevo iniziato
e sentivo già le fitte alle gambe. Cercavo di non pensare a quanto
mancasse alla fine perché avrebbe allungato solo la mia agonia.
«Quali sono i piatti del giorno?», chiese tenendo stretto il menù
con entrambe le mani e continuando a leggere.
«Porridge e waffle con marmellata ai mirtilli fatta in casa», cercai di
non usare un tono scocciato, dato che era la centesima volta che
ripetevo quella frase.
«Prendo uova, bacon e due fette di pane integrale a parte», disse
posando la lista sul tavolo.
Scrissi la comanda e la portai in cucina. Attaccai il foglio alla
pinzatrice e la girai verso la cuoca, nonché proprietaria del café, che
non mi fece alcun cenno di assenso, ma non me lo aspettavo di
certo. Dopo più di un anno che lavoravo per lei, avevo imparato che
non amava perdere tempo. Aveva da poco superato i cinquant’anni
e si vestiva come se ne avesse trenta. Quel posto era tutta la sua
vita - era single e non aveva mai avuto figli - perciò ci teneva, voleva
che tutto fosse impeccabile. Insomma, era una grandissima
rompiscatole.
«Alathea, non perdere tempo a sognare a occhi aperti, ti pago per
lavorare», mi riprese la signora Smith dalla sua posizione dietro i
fornelli.
Stavo per risponderle che avevo già preso tutte le ordinazioni e
avevo versato anche il secondo giro di caffè, quando sentii il
familiare suono del campanello che annunciava l’entrata di un nuovo
cliente. Quella mattina c’ero solo io di turno; Avett, la mia collega, si
era data nuovamente malata, quindi andai di là senza altri indugi.
Anche se dovevo lavorare il doppio, non mi lamentavo perché voleva
dire avere qualche dollaro in più a fine giornata. Come diceva
sempre mia madre: “Bisogna trovare il lato positivo quando fai parte
del girone dei perdenti”.
«Buongiorno e ben arrivato da Christie’s», dissi sfoggiando il mio
miglior sorriso e appoggiando la lista sul tavolo.
Lui era occupato a guardare lo schermo dello smartphone e non
dava segno di avermi sentito. Continuava a non girarsi verso di me,
cosa che ritenni molto sgradevole. Uno dei lati negativi del mio
mestiere era di non poter rispondere come avrei voluto ai clienti
come lui. Non se avessi voluto tenermi il posto.
Ero quasi pronta a ripetermi quando lo sentii parlare.
«Mi porti del caffè nero bollente. Lo prepari fresco, non voglio
quella brodaglia che giace lì da chissà quanto tempo. Dopo dieci
minuti, mi porti un omelette di soli albumi e un pomodoro tagliato a
rondelle. Condimento separato».
Rimasi tramortita dal suo ordine. La voce di quell’uomo era bassa
e roca: se un leone avesse potuto parlare, me lo sarei immaginato
con quel tono. Trasudava potere da tutti i pori e solo in quel
momento lo guardai meglio. Aveva i capelli biondo scuro, lunghi, che
cadevano sulle spalle; le sue mani erano curate e le dita battevano
impazienti sul tavolo di legno. Lo potevo osservare solo di profilo
perché ancora non si era voltato, ed ero impaziente: volevo che lo
facesse, lo speravo con tutta me stessa tanto era il desiderio di
vedere il suo viso.
«Mi ha capito o devo scriverglielo io?», replicò mentre si passava
una mano tra i capelli.
La sua voce mi riportò alla realtà in modo brusco. Sbattei le
palpebre e gli risposi cercando di non essere troppo acida.
«Le porto subito il suo caffè».
Scrissi l’ordine e mi allontanai in fretta dal tavolo.
Da lui.
Mai, come in quel momento, avevo avvertito un senso di disagio
per la mia divisa rosa in poliestere. Sentii il suo guardo che mi
seguiva, voltai un po’ il viso per controllare se fosse così, ma era
ancora concentrato sullo schermo. Forse mi ero fatta suggestionare,
ma in ogni caso tirai giù l’orlo della gonna perché mi sentii nuda.
Mi avvicinai verso il bancone dove era posizionata la macchina del
caffè e versai il contenuto della caraffa nel lavandino: anche se lo
avevo preparato nemmeno venti minuti prima, non volevo correre il
rischio di indispettire quell’uomo. La prima regola della mia datrice di
lavoro era di andare sempre incontro alle richieste dei clienti, ma
odiavo servire i tipi spocchiosi come lui. Cambiai filtro, riempii il
dosatore con il caffè e premetti invio; nel frattempo mi sporsi verso la
cucina per riportare l’ordine.
«Christi, questo è l’ordine del tavolo otto. Vuole il suo piatto dieci
minuti dopo aver bevuto il caffè», le dissi mentre pinzavo il foglietto.
Lei puntò lo sguardo sulla sala e venne verso di me, togliendomi il
pezzo di carta dalla mano.
«Vengono tutti qui e pretendono di essere serviti come più gli
aggrada», continuò a lamentarsi con me, indossando gli occhiali per
leggere la comanda. Ovviamente la regola valeva solo per noi
cameriere: nessuno poteva darle ordini. «Fammi vedere chi è questo
tipo che vuole dettare i tempi nella mia cucina!». Poi si sporse oltre il
finestrone, guardandomi con quegli occhi a palla ricoperti da due
chili di ombretto viola.
«È quello seduto in fondo, penultimo tavolo a destra», le risposi
dando le spalle all’uomo per non farmi scoprire.
Christi fissò il punto che gli avevo indicato e vidi la sua
espressione mutare: non era più arrabbiata, ma spaventata.
«Esegui i suoi desideri, non voglio avere problemi. Portagli il caffè,
ma tieni lo sguardo basso. Ah, Alathea… è meglio se gli stai
lontana». Mise un piatto di porridge sul pass con le mani che
tremavano e le sue parole portarono il gelo in cucina: l’unico rumore
che si sentiva era il ronzio della lavastoviglie.
«Addirittura?», le risposi sorridendo. La sua preoccupazione era
quasi divertente, mi sembrava molto esagerata visto che era solo un
cliente.
Christi smise di affettare l’insalata e mi puntò contro il coltello.
«Se fossi una ragazza furba, seguiresti il mio consiglio. Anzi, credo
sia meglio che sia io a servirlo. Occupati degli altri tavoli», tagliò
corto e mi fissò in modo autoritario, sfidandomi a dirle di no.
«No», ribattei con fierezza. Non ero solita scappare dalle difficoltà,
e non sarebbe accaduto nemmeno quel giorno.
Quell’uomo aveva qualcosa che mi incuriosiva e il solo pensiero mi
lasciò senza fiato. Non era facile trovare una persona che mi
attraesse; non che avessi gusti difficili, ma avevo altre priorità.
«Sei molto impegnata, sono perfettamente in grado di cavarmela
da sola», aggiunsi cercando di smorzare un po’ la tensione.
«Sta’ attenta, bambina, qui non si tratta solo di caffè. Quel tipo è
un predatore ed è a caccia, non trasformarti nella sua preda», disse
cercando di intimorirmi, ma non ero così suggestionabile e non
volevo darla vinta a lei e a quel maleducato. «Ora porta l’ordinazione
al tavolo sei, prima che diventi una poltiglia», mi ordinò chiudendo il
discorso.
Camminai e mi sforzai di non voltarmi nella direzione dello
sconosciuto, ma alla fine la curiosità vinse. Scoprii, mio malgrado,
che avevo attirato la sua attenzione e non si creava nessuno
scrupolo a fissarmi. Se di profilo era bello, completamente girato
faceva rimanere a bocca aperta.
Era ammaliante.
Il viso era spigoloso, gli occhi azzurri e profondi come l’oceano, ma
non c’era traccia di calore. Chinò il capo verso destra come per
esaminarmi meglio, e mi sentii sotto esame. Poi tutto cambiò
velocemente: smise di osservarmi e si dedicò ancora allo schermo
del telefono. Non capivo cosa dovessi temere da uno come lui, ero
perfettamente in grado di gestirlo. Durante la mia adolescenza,
vissuta in una roulotte, avevo conosciuto uomini ben peggiori e ne
ero sempre uscita vincitrice.
Portai l’ordinazione e il cliente mi ringraziò con un sorriso. Non
riuscii a non confrontare i due uomini: quello davanti a me aveva una
bellezza classica, poco più di una trentina d’anni e tutto in lui gridava
calore, l’altro era particolare e sembrava un pezzo di ghiaccio.
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